La filiera italiana del riciclo delle auto fuori uso non riesce a centrare il target europeo di recupero, obbligatorio dal 2015. Colpa dei ritardi sulla gestione del car fluff, ma soprattutto del mancato adeguamento delle case automobilistiche al regime EPR. In vista della revisione della direttiva comunitaria di settore, AIRA lancia l’allarme per il rischio di una procedura d’infrazione
Nonostante le buone performance di reimpiego e riciclo, la filiera italiana delle auto a fine vita arranca nel percorso verso il target vincolante di recupero imposto dall’Ue. Una filiera ingolfata, che in cinque anni non ha visto variare di un solo punto percentuale le proprie prestazioni e che guarda con apprensione all’ormai prossima revisione della disciplina europea di settore. Se l’Europa sembra decisa ad accelerare, infatti, l’Italia dal canto suo, pare al momento inesorabilmente destinata a scivolare verso una nuova procedura d’infrazione. “La revisione in corso presso la Commissione europea – dice Stefano Leoni, presidente dell’Associazione Italiana Riciclatori di Auto – prevede obiettivi più ambiziosi. Di fronte all’inerzia dimostrata negli ultimi anni, anni in cui non si è riusciti a risolvere i problemi strutturali della filiera, il rischio di trovarsi di fronte a ulteriori aggravi è maggiore”.
Per capire la natura dei “problemi strutturali” citati da Leoni dobbiamo partire dai numeri. Stando ai dati di Ispra, nel 2019 ammontava a circa un milione 300mila tonnellate il peso dei veicoli dismessi avviati a trattamento in 1462 impianti di demolizione e in poco più di trenta siti di frantumazione, che hanno generato complessivamente 132mila tonnellate di componenti da avviare a riuso in forma di pezzi di ricambio e ben 956mila tonnellate di nuove materie prime per l’industria, soprattutto ferro. Un tasso di reimpiego e riciclo dell’84,2% sostanzialmente in linea con l’obiettivo europeo dell’85%, obbligatorio dal 2015 ai sensi della direttiva Ue sui veicoli a fine vita. Peccato che proprio dal 2015 resti ferma intorno all’85% anche la nostra percentuale di recupero complessivo, che si ottiene sommando a reimpiego e riciclo anche il recupero energetico e che stando alla direttiva Ue dovrebbe raggiungere almeno il 95%.
Tutto ruota intorno alla gestione del ‘car fluff’, il residuo eterogeneo generato dalle attività di frantumazione dei veicoli dismessi, composto da elementi ad alto potere calorifico come gomma e plastica. In teoria sarebbe l’ideale da avviare a recupero energetico. Trasformandolo in CSS, combustibile da rifiuto, si potrebbe addirittura sostituirlo al redivivo carbone nelle centrali elettriche o all’inquinantissimo pet coke nelle cementerie. E allora perché nel 2019, come dice Ispra, abbiamo smaltito in discarica tutte e 200mila le tonnellate di fluff prodotte? “La filiera, per com’è oggi concepita e strutturata – spiega Leoni – non consente di avere il margine necessario a pagare gli alti costi di conferimento negli impianti di recupero energetico. È un’anomalia del tutto italiana, visto che il settore a livello europeo è coperto dalla disciplina della responsabilità estesa del produttore, che dovrebbe coprire i costi di gestione del rifiuto”.
Ai sensi del principio ‘chi inquina paga’ insomma dovrebbero essere i produttori, quindi le case automobilistiche, a sostenere finanziariamente le operazioni di gestione delle loro vetture a fine vita. Ma il regime EPR disegnato dal nostro Paese con il recepimento della direttiva europea rimanda tutto alla libera iniziativa dei produttori, con ben pochi vincoli e nessuna sanzione per chi non si adegua. Al punto che ad oggi, di fatto, non ha ancora trovato applicazione concreta. I costi di gestione dei rifiuti restano così esclusivamente in capo agli operatori della filiera, i cui margini di guadagno dipendono a loro volta dalla volatilità dei valori di mercato dei pezzi di ricambio o dei materiali riciclati. “Ecco perché per gestire il fluff gli operatori – continua Leoni – sono naturalmente portati a scegliere la soluzione meno onerosa, ovvero la discarica”. Ed ecco perché le percentuali di recupero restano inchiodate all’85%, dieci punti sotto il target vincolante.
E le cose potrebbero mettersi anche perggio, ora che a più di vent’anni dalla sua prima introduzione, la Commissione europea è al lavoro per fare il tagliando alla direttiva adottata nel 2000 e recepita in Italia tre anni dopo. Le valutazioni di Bruxelles, che terrà conto anche delle informazioni raccolte lo scorso anno nel corso di un’ampia consultazione condotta con i principali portatori d’interesse europei, confluiranno in una proposta di revisione che la Commissione dovrebbe presentare entro il quarto trimestre del 2022, per correggere i punti deboli e rendere ancora più ambiziosa la portata della disciplina. “L’intenzione della Commissione – dice Leoni – è quella di allargare la platea dei veicoli sottoposti alla disciplina, estendendola ad esempio alle due ruote, ma anche prevedere obiettivi di riciclo su frazioni specifiche come vetro e plastica. Fronti sui quali al momento la filiera italiana non è assolutamente attrezzata”.
Secondo stime di AIRA con l’estensione del perimetro d’azione della direttiva le quantità di car fluff da gestire potrebbero aumentare anche del 50%, allontanando ancora di più il target europeo di recupero. E anche l’obiettivo dell’85% di riciclo e riuso potrebbe non collocarsi più alla nostra portata se l’Ue decidesse di introdurre obiettivi ancora più specifici e ambiziosi. Conseguenza diretta sarebbe “l’avvio di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese, che in caso di condanna porterebbe a sanzioni economiche a carico di tutti gli italiani”, scrive AIRA in una nota fatta pervenire al Ministero della Transizione Ecologica. Ma le sorti della filiera delle auto a fine vita non sembrano esattamente in cima alla lista delle priorità del dicastero. “Da oltre un anno bussiamo alle porte del Ministero per capire come il Paese intenda collocarsi rispetto a questa revisione – racconta amareggiato il presidente di AIRA – ma non abbiamo mai ottenuto risposta”.
Una risposta però serve, e a stretto giro. Anche perché sull’asfittico mercato dell’auto in Italia stanno per cadere a pioggia gli incentivi varati dal governo con l’obiettivo di rivitalizzare produzione diretta e indotto puntando sull’elettrificazione del parco mezzi circolante: un pacchetto di agevolazioni da un miliardo di euro l’anno fino al 2030, che servirà anche a stimolare investimenti privati in innovazione e sostenibilità e che, prevedibilmente, genererà un ulteriore aumento dei veicoli con motore termico da rottamare. “Posso trovarlo anche giusto – dice Leoni – visto che siamo in una fase di transizione. Ma credo che il processo vada visto in maniera olistica. Purtroppo questa visione manca, e così molti soldi vanno a sostenere il mercato ma senza alcuna attenzione rispetto al futuro del prodotto”. Ovvero al rifiuto.
L’imminente aggiornamento della direttiva europea, spiega il presidente di AIRA, potrebbe essere l’occasione giusta per guardare al futuro dell’intera filiera dalla prospettiva migliore, ovvero quella della corretta progettazione dei veicoli, fondamentale per aumentare le possibilità di riuso e riciclo e ridurre le quantità di scarti da avviare a recupero energetico o smaltimento, fluff da frantumazione compreso. “Bisogna cominciare a discutere adesso di come dovranno essere costruite le automobili – spiega Leoni – perché sia più facile smontarle e recuperarne le componenti. Ma il tema della progettazione a monte al momento non trova un tavolo di discussione. Quello che chiediamo – dice – è a tutte le parti interessate di incontrarsi e proporre alla politica una posizione condivisa sul da farsi. Una posizione di difesa degli interessi delle categorie italiane presso le sedi dell’Ue”.