L’Italia anticipa l’obbligo europeo di raccolta differenziata per rifiuti tessili e organico, entrambi al via dal primo gennaio. Ma sulle sorti delle due filiere pesano la mancanza di impianti e la scarsa qualità delle raccolte
Se il 2021 si è chiuso con il rinvio a fine giugno dell’obbligo di etichettatura ambientale degli imballaggi, strumento necessario tra l’altro a migliorare le performance di raccolta e riciclo del packaging a fine vita, l’anno nuovo si apre invece con l’avvio, stavolta anticipato, di due obblighi che puntano allo stesso modo a rafforzare la gestione sostenibile dei rifiuti urbani nel nostro Paese. A patto però di migliorare la qualità della differenziata e di dotarsi delle infrastrutture necessarie a trasformare in valore gli scarti raccolti. A partire dai rifiuti organici per i quali è scattata dal primo gennaio la raccolta differenziata mandatoria sull’intero territorio nazionale, con ben due anni di anticipo rispetto al termine del 2024 fissato dalle direttive europee sull’economia circolare.
Una scelta, quella di anticipare l’efficacia dell’obbligo, figlia delle ottime performance raggiunte dal nostro Paese, che al momento risulta coperto all’80% da sistemi di differenziata dell’organico, capaci nel 2020, stando ai dati dell’ultimo rapporto Ispra, di raccogliere in maniera separata oltre 7 milioni di tonnellate e avviarle a recupero nei 359 impianti di digestione anaerobica e compostaggio operativi sul territorio nazionale. Secondo stime del Consorzio Italiano Compostatori, l’estensione della differenziata al 20% dei comuni che non hanno ancora attivato il servizio si tradurrà in un aumento di più di 2 milioni di tonnellate, che richiederà l’avvio di nuovi impianti di trattamento soprattutto al Centro-Sud. Secondo Ispra infatti solo 130 delle strutture operative nel 2020 erano localizzate nelle regioni centro meridionali. A queste, spiega il CIC, dovranno aggiungersene almeno altre 50. Anche perché se gli impianti non vanno dai rifiuti, sono i rifiuti ad andare dagli impianti, al costo di onerosi e inquinanti viaggi verso le regioni più infrastrutturate. Secondo Ispra, proprio l’organico è la frazione che nel 2020 ha viaggiato di più sul territorio nazionale, con 1,8 milioni di tonnellate movimentate.
Una spinta preziosa all’infrastrutturazione del settore potrà venire dai fondi che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza apposta alla linea d’investimento da 1,5 miliardi di euro dedicata all’ammodernamento dei sistemi di gestione dei rifiuti urbani. Oltre che da nuovi impianti, avverte però il consorzio, l’incremento delle quantità raccolte andrà necessariamente accompagnato da misure per migliorarne la qualità, con l’obiettivo di portare al di sotto della soglia del 2% la presenza di impurità nel rifiuto differenziato, che oggi, avverte il CIC, in alcuni casi arrivano anche al 15%. Una minaccia alla sostenibilità economica del sistema, oltre che all’efficacia dei processi di recupero, visto che ogni punto di materiale non compostabile in ingresso negli impianti, spiega il consorzio, si traduce a livello nazionale in un extra costo di 50 milioni di euro per gli operatori chiamati a farsi carico dello smaltimento delle frazioni non compostabili.
Nodi, quelli della qualità della raccolta e delle infrastrutture per il trattamento, dirimenti anche per l’altra filiera per la quale a partire dal primo gennaio scatta l’obbligo di raccolta differenziata, quella dei rifiuti tessili. Anche in questo caso l’Italia ha scelto di anticiparne l’efficacia rispetto al termine ultimo fissato dal pacchetto ‘circular economy’, che invece chiedeva agli Stati membri di adeguarsi entro il 2025. Uno scatto in avanti che però, secondo gli addetti ai lavori, rischia di rivelarsi un passo falso. Perché se è vero che nel 2020 oltre il 70% dei comuni aveva già attivato il servizio di differenziata, separando più di 143mila tonnellate, sempre secondo Ispra l’estensione dell’obbligo alle amministrazioni non coperte, unito a una più capillare intercettazione della quantità di rifiuti tessili che oggi finiscono nell’indifferenziato, potrebbe portare la raccolta a superare le 830mila tonnellate. Oggi però, sottolinea il laboratorio Ref in un recente position paper, solo una quota tra il 35 e il 45% trova collocazione nel mercato del riuso e del riciclo, mentre tutto il resto finisce in discarica o in container diretti verso Pakistan, India e Turchia, seguendo rotte non sempre trasparenti.
Il problema, spiega Ref, è duplice: da un lato pesa la mancanza di impianti per il ricondizionamento dei rifiuti raccolti, soprattutto quelli per il recupero di materia dagli stracci, dall’altro la scarsa qualità della differenziata, condizionata dal forte aumento di indumenti a basso costo provenienti dal circuito ‘fast fashion’. Un mix che in questa fase potrebbe risultare esiziale: se gli impianti non ci sono e i costi di gestione delle frazioni non recuperabili o riutilizzabili superano i potenziali ricavi, l’aumento delle quantità raccolte espone sia gli operatori del riuso che quelli del riciclo al rischio fallimento. Oltre a spianare la strada al traffico illegale verso le economie emergenti. Una delle soluzioni, ipotizza Ref, potrebbe venire dall’introduzione di uno o più schemi di responsabilità estesa del produttore, o EPR, in virtù dei quali una quota dei ricavi generati dalla vendita di capi d’abbigliamento viene incamerata dai produttori in forma di ‘eco-contributo’ e utilizzata per finanziare le attività di raccolta, preparazione al riutilizzo e riciclo.
Resta però il nodo degli impianti. Anche su questo fronte il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza apre prospettive di grande interesse. Nell’ambito della linea d’investimento da 600 milioni dedicata ai cosiddetti ‘progetti faro’ di economia circolare 150 milioni andranno proprio a finanziare la realizzazione di ‘textile hubs’ con l’obiettivo del 100% di recupero del tessile a fine vita. Una partita che, avverte Ref, potremo vincere solo declinando nella chiave dell’innovazione e della sinergia industriale la tradizionale propensione al riciclo dei nostri distretti manifatturieri, concentrati per il 60% in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte. Ogni anno, ricorda Ref, le industrie del tessile di Prato da sole importano 180mila tonnellate di scarti, prevalentemente di lana, che macchinari unici al mondo trasformano in fibre da riciclo pronte per essere reimmesse nei cicli produttivi in Italia o all’estero. Una pratica che risale addirittura alla seconda metà dell’800. La sfida, oggi, è passare dal primato della tradizione a quello dell’innovazione.