Sono soltanto otto le regioni che hanno comunicato la classificazione degli impianti per attivare il sistema di tariffe al cancello introdotto da Arera. Al Sud risponde solo la Puglia, mentre al Nord le scelte delle Regioni riducono gli spazi del libero mercato, soprattutto per i rifiuti organici
È nato con l’obiettivo di disincentivare lo smaltimento in discarica e spingere la realizzazione di impianti di recupero soprattutto al Sud, ma al momento tra le Regioni meridionali solo la Puglia sembra volersene servire. Il nuovo sistema di tariffe al cancello lanciato dall’autorità di regolazione Arera nell’ambito del secondo periodo regolatorio convince più le infrastrutturate Regioni del Nord che quelle del Sud, stando a quanto emerge da una ricognizione condotta dal Laboratorio Ref Ricerche in vista della scadenza del prossimo 30 aprile, data entro la quale le amministrazioni regionali dovranno inviare all’autorità i piani economico finanziari delle strutture che intendono assoggettare al nuovo sistema di ‘gate fee’.
Lo strumento, giova ricordarlo, servirà a determinare le tariffe all’ingresso degli impianti ‘di chiusura’ – ovvero di digestione anaerobica o compostaggio per la frazione organica (FORSU), inceneritori e discariche per il rifiuto urbano residuo (RUR) – con un meccanismo di incentivi e disincentivi modulato su vari parametri e finalizzato a spingere il recupero e ridurre lo smaltimento. Ma anche a supportare l’infrastrutturazione, visto che tra i fattori in base ai quali saranno modulate le tariffe di conferimento c’è anche quello della prossimità: pagherà di più chi porterà i propri rifiuti in impianti collocati in altre Regioni. L’obiettivo è quello di allineare il Paese ai target europei di circolarità: su tutti 65% di riciclo (siamo al 54,4%) e 10% massimo di smaltimento in discarica (oggi è al 20%) dei rifiuti urbani entro il 2035.
Il 30 aprile, ricorda Ref, è anche la data entro la quale le Regioni dovranno comunicare quali impianti intendono assoggettare al sistema di tariffe regolate, classificandoli come ‘minimi’, ovvero indispensabili alla chiusura del ciclo, o ‘integrati‘, quindi affidati al gestore integrato, mentre gli impianti ‘aggiuntivi‘ resteranno sul mercato e saranno soggetti solo a obblighi di trasparenza e comunicazione. Le Regioni hanno però fin qui risposto in ordine sparso. Solo Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Puglia hanno infatti comunicato la classificazione degli impianti. “Le restanti Regioni, invece – si legge – non si sono al momento espresse (e forse non lo faranno), scegliendo di rinunciare alla leva della regolazione incentivante per ridurre i divari e superare le carenze impiantistiche”. Un’occasione persa per le Regioni meno servite da infrastrutture di trattamento, come Lazio, Campania, Sicilia e Calabria, visto che il sistema, ricorda Ref, è nato proprio per garantire tariffe regolate laddove vi siano rigidità strutturali generate da deficit di offerta, evitando che gli alti costi richiesti dai pochi impianti esistenti si ribaltino sulle tariffe per i cittadini e, al tempo stesso, incentivando gli investimenti in nuove tecnologie di riciclo e recupero energetico per ridurre il ricorso alla discarica.
Nel silenzio delle amministrazioni meridionali risuona solitaria la voce della Puglia, l’unica ad aver comunicato ad Arera la classificazione degli impianti da assoggettare al sistema di tariffe. La Regione ha scelto di identificare come ‘minimi’ sia gli impianti per il recupero della FORSU (compresi quelli autorizzati ma da realizzare) che con la loro capacità coprono l’intero fabbisogno regionale di trattamento, sia i termovalorizzatori e le discariche per la gestione dei rifiuti residui, coprendo in quest’ultimo caso solo il 76% del fabbisogno, “che non può essere completamente colmato in regione per via delle carenze impiantistiche”.
Una scelta che punta anche a bilanciare le rigidità strutturali del sistema delle discariche, che accoglie ancora oggi il 31% della produzione regionale di rifiuti e che, scrive la Regione, “risulta caratterizzato da fenomeni di dumping commerciale e di distorsione oligopolistica“. In generale, osserva Ref, la classificazione definita dalla Regione Puglia “appare coerente con lo stato dell’arte della gestione in regione, come per altro avvalorano i deficit territoriali relativi alle frazioni critiche del RUR (-70mila tonnellate) e dell’organico (-154mila tonnellate), accompagnati da un eccessivo ricorso alla discarica”. L’obiettivo della Regione guidata da Michele Emiliano insomma è quello di utilizzare la leva della regolazione incentivante per ridurre lo smaltimento, aumentare l’intercettazione dell’organico e orientare i flussi di rifiuto residuo verso il recupero di energia all’interno dei confini regionali.
E se la Puglia ha scelto di attivare il sistema di tariffazione incentivante per allineare il proprio ciclo rifiuti ai parametri europei, le altre amministrazioni sembrano decise a farne una leva per ridisegnare in chiave ‘protezionistica’ il rapporto tra domanda e offerta di trattamento, con scelte che, spiega Ref, “impatteranno pesantemente sull’assetto di mercato, giacché gli impianti individuati come strategici godranno di flussi garantiti dalla pianificazione, e dunque sottratti al libero mercato”. Complessivamente infatti, nel ‘trade off’ tra regolazione e concorrenza sembra prevalere la prima, visto che delle Regioni che hanno comunicato ad Arera la propria classificazione solo la Lombardia, forte di un notevole surplus di trattamento sia per il rifiuto residuo che per l’organico, risulta aver identificato come ‘aggiuntivi’ tutti gli impianti di chiusura a eccezione di quelli integrati. La gestione dei rifiuti organici resta totalmente aperta al mercato anche in Veneto, altra Regione caratterizzata da forte surplus di trattamento, dove però il fabbisogno di gestione del residuo indifferenziato sarà per contro coperto al 100% dalla nuova regolazione. Una scelta “coerente con il contesto impiantistico regionale, trattandosi di una regione autosufficiente, ma che non presenta un’offerta di trattamento superiore rispetto alla domanda”.
Mentre la Lombardia (e il Veneto per la sola FORSU) conferma la propria vocazione al libero mercato, l’Emilia-Romagna, dove pure è significativo il surplus di trattamento, ha scelto invece di assoggettare alla regolazione tutti gli impianti di chiusura del ciclo per il rifiuto indifferenziato, per una capacità di trattamento pari al 132% del proprio fabbisogno. “Più che dal concretizzarsi di rigidità strutturali nel mercato del trattamento, l’approccio adottato dalla Regione appare motivato dalla volontà di preservare il framework regionale esistente, ove l’Agenzia Territoriale dell’Emilia-Romagna per il Servizio Idrico e i Rifiuti (ATERSIR) disciplina i flussi di rifiuti urbani e stabilisce le regole che portano alla definizione delle tariffe ‘al cancello’ degli impianti di smaltimento del RUR”. Scongiurando così il rischio che le turbolenze di mercati sempre più ‘corti’, quelli del recupero energetico e dello smaltimento in discarica, possano tradursi in un’impennata dei costi di conferimento a danno dei Comuni emiliano romagnoli. Giudizio sospeso invece per l’organico, rispetto al quale la Regione si riserva di comunicare la propria scelta in un secondo momento.
Tendenze a chiudere entro i confini regionali il trattamento dell’organico emergono invece in Liguria, dove sarà assoggettata a regolazione una capacità di trattamento pari al 102% del fabbisogno (in parte ancora da realizzare), e in Toscana, mentre Piemonte e Friuli–Venezia Giulia sembrano voler mantenere a mercato almeno una quota della FORSU, regolando rispettivamente una capacità di trattamento pari al 39% e al 48% della necessità. Discorso diverso per il residuo indifferenziato, con il Piemonte che ha comunicato di voler assoggettare a regolazione una capacità di trattamento pari all’85% del fabbisogno, mentre il Friuli punta a regolare il 73%. In Liguria si sale al 93%, in coerenza con l’ampio ricorso allo smaltimento in discarica (25%), il basso tasso di differenziata (53,4%) e un deficit di trattamento di poco più di 80mila tonnellate di RUR. Il quadro che emerge insomma è quello di un Paese nel quale anche le Regioni dotate di un sistema impiantistico in grado di garantire il dinamismo del mercato tendono a preferire la sicurezza della regolazione ai potenziali benefici della libera concorrenza, con scelte “mosse più dal desiderio di tutelare l’utenza dalle oscillazioni del mercato che di difendere il mercato stesso” spiega Ref.
Scelte che però, avverte Ref, risultano “idonee a generare delle distorsioni nel mercato del trattamento anche in territori nei quali l’offerta è eccedentaria rispetto alla domanda”. Se infatti al Sud la bacinizzazione dei flussi potrebbe porre le basi per la costruzione di nuovi impianti, osserva Ref, “quanto meno nell’area del Nord, ove l’offerta è più capiente e strutturata rispetto al resto del Paese, sarebbe stato opportuno privilegiare una gestione a mercato su area vasta”. Il rischio infatti è che la regolazione di flussi e tariffe possa tenere in vita impianti non ottimali, impedendo la valorizzazione delle “economie di scala degli impianti a tecnologia complessa”. Un disegno di mercato, quello tracciato dalle scelte delle amministrazioni, che soprattutto per i rifiuti organici sembra già dare corpo all’indicazione di restringere il trattamento al perimetro regionale contenuta nella proposta di Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti. “Un sacrificio del principio concorrenziale in cambio di una gestione in prossimità, pensata per minimizzare la movimentazione di rifiuti putrescibili”. aggiunge Ref, che tuttavia “non sembra esente da vizi procedurali” visto che per le frazioni da avviare a recupero “la definizione di un assetto di mercato andrebbe infatti demandata alla Legge, piuttosto che agli strumenti di programmazione”, spiega il laboratorio.