No ad alcun vincolo di comunicazione “nè preventivo nè periodico” per le utenze non domestiche che scelgono di affidarsi al mercato e non al servizio pubblico per la gestione dei propri rifiuti urbani. Questa la posizione che emerge in una nota firmata da Confartigianato, Cna e Casartigiani in merito alla proposta di circolare messa a punto dai Ministeri della Transizione ecologica e delle Finanze che dovrebbe sciogliere i nodi legati al disallineamento tra la nuova disciplina sulla classificazione dei rifiuti introdotta dal decreto legislativo 116 del 2020 e la disciplina tributaria attualmente in vigore, quella della Tari.
Nella bozza di circolare che Ricicla.tv ha potuto visionare in anteprima i due dicasteri hanno previsto di fissare al 30 giugno di ogni anno il termine ultimo entro il quale «l’utente produttore è tenuto a comunicare formalmente all’ente gestore di ambito ottimale, ove costituito ed operante, ovvero al Comune di appartenenza la scelta di avvalersi o meno del servizio pubblico di raccolta» in riferimento all’esercizio successivo, con l’obiettivo di non compromettere la determinazione del Piano Economico Finanziario e delle tariffe Tari da parte dei comuni. Una proposta che le associazioni delle pmi rispediscono al mittente.
Il decreto legislativo 116 del 2020, scrivono le associazioni, «prevede esclusivamente che il produttore dimostri di aver avviato al recupero i rifiuti, ma non prevede esplicitamente alcun vincolo di comunicazione né preventivo né periodico» ecco perché «pur comprendendo la necessità di facilitare la pianificazione del servizio pubblico» si legge nella nota «non si condivide la previsione di un obbligo di comunicazione in base alla quale il produttore dovrebbe comunicare entro il 30 giugno dell’esercizio precedente tipologia e quantità di rifiuti urbani oggetto di avvio al recupero».
Sempre nella stessa ottica, dicono le imprese, si rende necessario rivedere la previsione contenuta nel decreto legislativo 116 in base alla quale l’impresa produttrice di nuovi rifiuti urbani che sceglie di uscire dal servizio pubblico debba ricorrere al mercato per almeno cinque anni. «Sarebbe necessario un intervento normativo per ridurre (se non eliminare) il riferimento ai cinque anni, prevedendo quanto meno tempistiche più congrue con l’attività di impresa (due o al massimo tre anni)» scrivono le associazioni nella nota. «Bisogna evitare – sostengono i rappresentanti degli artigiani e delle pmi – di orientare forzatamente il mercato verso una gestione pubblica dei rifiuti prodotti dalle imprese, anche se ricadono sotto la nuova definizione di rifiuto urbano. In questo modo si creerebbe un ostacolo alla libera concorrenza, penalizzando una gestione a mercato dei rifiuti prodotti dalle imprese che in questi anni ha garantito significativi risultati di riciclo».