I rifiuti un tempo speciali “assimilati” o “assimilabili” sono diventati rifiuti urbani tout-court. La norma però presenta difficoltà interpretative e applicative a ogni livello della filiera.
Dai comuni alle imprese: perché ce l’hanno tutti con la nuova classificazione dei rifiuti urbani introdotta dal decreto legislativo 116? Cerchiamo di fare chiarezza. Operativa dal 1 gennaio, la disciplina ha ridefinito il perimetro dei rifiuti speciali e di quelli urbani, facendo rientrare tra questi ultimi un lungo elenco di rifiuti prodotti da attività commerciali e artigianali simili per qualità agli urbani. Quei rifiuti cioè che un tempo erano speciali, ma “assimilati” o “assimilabili”, e che per effetto della nuova disciplina sono diventati rifiuti urbani tout-court. La norma però ha presentato fin da subito difficoltà interpretative e applicative a ogni livello della filiera.
Ad esempio il cambio di status giuridico dei rifiuti, da speciali a urbani, ha reso necessaria la modifica delle autorizzazioni per le imprese, da quelle della raccolta agli impianti di trattamento, pena la sospensione delle attività o il rischio di incappare in denunce e sanzioni. Anche a questo sarebbe dovuto servire il periodo transitorio di due mesi garantito dal decreto 116 (entrato in vigore a ottobre, mentre la nuova classificazione è operativa dal primo gennaio). Ma visto che parliamo di migliaia di provvedimenti da rivedere, nelle mani di una burocrazia non sempre capace di garantire risposte tempestive, a parecchi quel periodo transitorio non è bastato.
«Questa è una rivoluzione copernicana, non bastano due mesi per rivedere tutto», commentava a Ricicla.tv Eugenio Onori, presidente dell’Albo Nazionale Gestori Ambientali, che proprio per far fronte alle necessità del sistema ed evitare il blocco delle attività, sul finire di dicembre aveva concesso una sorta di moratoria a raccoglitori e trasportatori. Sulla stessa linea si sono poi mossi una serie di enti locali, come le province di Bergamo e Brescia, ma in tantissimi altri casi invece gli operatori stanno continuando a lavorare in una sorta di limbo amministrativo.
Ma i nodi ancora da sciogliere sono anche altri. Come ad esempio quelli di natura tributaria. I nuovi rifiuti urbani, dice infatti la norma, restano sul libero mercato proprio com’era per gli speciali assimilabili o assimilati. Ciò significa che le utenze non domestiche possono scegliere di “uscire” dal servizio pubblico per la gestione dei loro rifiuti, sebbene urbani, e di ottenere riduzioni della Tari se dimostrano di averli avviati a recupero. Il problema è che la norma manca di coordinamento tra la parte ambientale e quella tributaria, come sottolineato nelle scorse settimane anche dal Ministero delle Finanze, e l’ambiguità apre scenari di fatto imprevedibili.
Da un lato infatti i comuni, che da sempre premono per una proroga al 2021 della nuova classificazione, temono che la scarsa chiarezza della disciplina possa tramutarsi in una fuoriuscita di massa e sregolata delle utenze non domestiche dal servizio pubblico, ovvero in un’emorragia di denaro che li costringerebbe ad aumentare la tariffa per i cittadini. Dall’altro lato invece le imprese produttrici dei “nuovi” rifiuti urbani temono che i nodi interpretativi e applicativi possano di fatto ostacolare la loro libertà di scelta, spingendole a rimanere nel servizio pubblico. Anche perché, a differenza di quanto accadeva con i rifiuti assimilati, la nuova classificazione introduce l’obbligo, per chi sceglie di lasciare il servizio pubblico, di dimostrare di avere affidato i propri rifiuti “per almeno cinque anni” ad un operatore privato autorizzato.