Dal prossimo primo gennaio scatta l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili ma tra gli addetti ai lavori si parla già da tempo di proroga. Il nuovo dossier del laboratorio Ref spiega perché la fashion industry italiana non è ancora pronta a vincere la sfida dell’economia circolare
Ogni anno le industrie del tessile di Prato importano 180mila tonnellate di scarti, prevalentemente di lana, che macchinari unici al mondo trasformano in fibre da riciclo pronte per essere reimmesse nei cicli produttivi in Italia o all’estero. Una pratica che risale addirittura alla seconda metà dell’800 e che rappresenta una delle espressioni più significative di quella tradizionale propensione all’uso circolare delle risorse che fa della manifattura italiana una delle prime in Europa per capacità di sostituire alle materie prime vergini i materiali derivanti dal riciclo dei rifiuti.
Al pari dell’industria siderurgica o di quella cartaria, insomma, la fashion industry nostrana ha la circolarità nel sangue, e forse è anche per questo che lo scorso anno il legislatore ha scelto di anticipare al 1 gennaio 2022 l’entrata in vigore dell’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili che le direttive europee del pacchetto ‘circular economy’ fissavano al 2025. Ma siamo davvero pronti a fare il salto di qualità che l’aumento degli scarti da gestire correttamente richiederà? No, secondo l’ultimo position paper del laboratorio Ref, tanto che tra gli addetti ai lavori serpeggia da tempo l’ipotesi di una proroga.
“L’impressione – scrive Ref – è che, a fronte di un certo fermento che sta accompagnando gli ultimi mesi, manchi ancora una chiara direzione di marcia, e ciò emerge chiaramente ascoltando gli operatori del settore. Occorre riflettere con attenzione sul tema, che coinvolge uno dei settori di punta del ‘Made in Italy'”. Un rapido sguardo ai numeri per comprendere meglio le proporzioni del ‘problema’. Secondo Ispra, nel 2019 sono state raccolte in maniera differenziata 157mila tonnellate di rifiuti tessili di origine urbana. ma una quantità quattro volte superiore è finita nell’indifferenziato. Attivando la raccolta separata, spiega l’istituto, si potrebbe arrivare ogni anno a raccoglierne oltre 830mila tonnellate. E se un 35-45%, spiega Ref, trova in media collocazione nel mercato del riuso, resta un 55-65% che potrebbe essere trasformato in nuova materia prima e che oggi finisce invece ancora troppo spesso in discarica o in container diretti verso Pakistan, India e Turchia, seguendo rotte non sempre trasparenti. “A fronte dell’introduzione dell’obbligo di raccolta differenziata che scatterà tra pochi mesi, nei prossimi anni il vero salto di qualità si misurerà nella capacità di incanalare tali flussi verso percorsi di riciclo, cioè di recupero di materia” sottolinea Ref.
Una delle soluzioni potrebbe venire dall’introduzione di uno o più schemi di responsabilità estesa del produttore, o EPR, in virtù dei quali una quota dei ricavi generati dalla vendita di capi d’abbigliamento viene incamerata dai produttori in forma di ‘eco-contributo’ e utilizzata per finanziare le attività di raccolta, preparazione al riutilizzo e riciclo. Il tutto in ossequio al principio ‘chi inquina paga’. E da pagare ci sarebbe parecchio, visto che secondo i calcoli dell’Agenzia europea per l’ambiente l’industria della moda è responsabile ogni anno del 10% delle emissioni climalteranti in atmosfera, del 20% dell’inquinamento globale di acqua potabile e del 35% di microplastiche primarie disperse nei fiumi e nei mari. L’EPR, ricorda Ref, potrebbe rivelarsi anche una leva efficace per contrastare il fenomeno ‘fast fashion’ ovvero l’utilizzo di fibre e tessuti di bassa qualità per la produzione di capi d’abbigliamento che, giunti a fine vita, non trovano collocazione né sul mercato del riuso né tanto meno su quello del riciclo. Modulando il contributo di ogni produttore sulla base della sostenibilità del singolo capo si potrebbe orientare l’industria verso soluzioni di eco-design a basso impatto, capaci di agevolare le successive attività di recupero. E indurre i consumatori verso scelte d’acquisto più consapevoli.
Per tagliare esportazioni e conferimenti in discarica resta però tutto un mercato delle materie riciclate da costruire. Non partendo da zero, sia chiaro, ma sfruttando il valore aggiunto della ‘distrettualità’ delle imprese italiane, concentrate per il 60% in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte, creando veri e propri hub del tessile sostenibile. Come quelli che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza punta a finanziare con 150 milioni di euro nell’ambito della linea d’intervento dedicata alle cosiddette ‘filiere flagship’ di economia circolare. Ma da sole le risorse economiche non bastano, ricorda Ref. “Occorrerà essere consapevoli che il tema centrale è quello di sostenere gli extra costi del riciclo, ossia coprire quelle diseconomie che rendono ancora oggi più conveniente le filiere dei materiali vergini rispetto
a quelle da riciclo. Ad esempio – ricorda Ref – le fibre in poliestere vergine costano di meno di quelle riciclate. In
questo senso, uno schema di EPR appare la soluzione al momento più facilmente percorribile, attraverso un contributo ambientale tarato sulla base degli effettivi costi del riciclo, anche in funzione dei prezzi delle materie prime vergini”.