Ha preso il via con una levata di scudi da Nord a Sud dello Stivale la delicata fase di confronto tra governo ed enti locali sull’individuazione della località che dovrà ospitare il Deposito Nazionale delle scorie radioattive, apertasi ufficialmente lo scorso 6 gennaio con la pubblicazione della CNAPI, la carta delle aree potenzialmente idonee, che censisce 67 siti in 7 regioni: Lazio, Basilicata, Puglia, Sardegna, Piemonte, Toscana e Sicilia, che hanno tutte già manifestato la propria indisponibilità. Poco importa se al momento le scorie sono stoccate in siti provvisori talvolta nelle stesse regioni che hanno già detto “no” al Deposito Nazionale: sono ventuno infatti i depositi temporanei che ospitano rifiuti radioattivi in Italia, stando all’ultimo inventario dell’Ispettorato per la sicurezza nucleare (Isin), per un totale di poco più di 31mila metri cubi. Depositi che«hanno una capacità limitata e non sono comunque idonei per lo stoccaggio a lungo termine né per lo smaltimento». A scriverlo è proprio l’Isin nell’ultima relazione annuale. Ma dove sono stoccate oggi le scorie che nel prossimo futuro dovranno essere trasferite al Deposito? Un po’ ovunque. Il Lazio, che è la regione con il maggior numero di siti considerati idonei nella CNAPI, ben 22, è anche quella che oggi custodisce i maggiori volumi di rifiuti radioattivi (9.284 m3) pari al 29,92% del totale nazionale, quasi interamente stoccati nell’impianto di ricondizionamento della Casaccia, a Roma, gestito dalla Nucleco.
Spetta invece al Piemonte il primato per il livello di radioattività delle scorie stoccate, oltre l’80% di tutta quella presente in Italia. Percentuale che potrebbe aumentare nel prossimo futuro, visto che i 7 siti individuati in Piemonte dalla CNAPI sono considerati tra i più idonei ad ospitare il Deposito Nazionale. La Basilicata invece, che nella CNAPI conta 16 siti potenzialmente idonei, nell’impianto Itrec di Rotondella, vicino Matera, oltre ad ospitare 3.300 metri cubi di rifiuti a media e bassa intensità conserva ancora ben 64 barre di combustibile nucleare ad alta intensità provenienti dalla centrale americana di Elk River per le quali, scrive Isin, «è previsto uno stoccaggio a secco sul sito, presso idonea struttura di deposito da realizzare». Insomma, volente o nolente, in Basilicata un nuovo deposito, sebbene temporaneo, si farà e come tutti gli altri dovrà «garantire che i rifiuti prodotti siano mantenuti in sicurezza in idonee strutture, indispensabili per la prosecuzione delle attività di disattivazione» delle ex centrali nucleari nostrane. Attività che l’assenza di un Deposito Nazionale sta rendendo sempre più lente e costose.
«Le incerte prospettive della realizzazione del Deposito Nazionale – scrive infatti l’Ispettorato – condizionano il settore e impongono scelte che aggravano i costi a carico della collettività». Costi ai quali potrebbero presto aggiungersi anche quelli delle sanzioni internazionali. Sia di quelle legate alle procedure d’infrazione aperte dalla Commissione europea, ben tre negli ultimi 5 anni, l’ultima delle quali solo lo scorso ottobre, sia di quelle che potrebbero derivare dal mancato rispetto degli accordi sul rientro di circa 100 metri cubi di rifiuti ad alta attività attualmente stoccati in Francia ed Inghilterra. Scorie generate dalle operazioni di riprocessamento del nostro combustibile irraggiato che dovrebbero tornare in Italia entro il 2025 per essere sistemate proprio nel Deposito Nazionale. Un accordo che, alla luce dell’incognita che ancora avvolge la struttura, i nostri partner internazionali dubitano l’Italia possa riuscire ad onorare. Tant’è che la Francia ha ufficialmente sospeso l’invio dell’ultima tranche di combustibile da riprocessare, pari a 13 tonnellate su un totale di 235, che restano stipate nel deposito Avogadro di Saluggia, in provincia di Vercelli. Lo stesso che nel 2000 rischiò di essere sommerso dalla Dora Baltea in piena e che, dagli accertamenti svolti da Isin «non risulta idoneo a proseguire a lungo il proprio esercizio».