Nel 2021 l’Italia ha generato 60 metri cubi di scorie radioattive. Complessivamente sul territorio nazionale ce ne sono quasi 32mila, stoccate in ventisei strutture temporanee. Ma il deposito nazionale, se tutto va bene, non arriverà prima del 2030
Cresce il volume dei rifiuti radioattivi in Italia, stoccati temporaneamente in più di venti siti da Nord a Sud del Paese nell’attesa di poter essere trasferiti al futuro deposito nazionale. Che però non sappiamo ancora dove, né tanto meno quando, potrà entrare in funzione. Nel frattempo le scorie aumentano, e a fine 2021 avevano raggiunto i 31mila 812 metri cubi, 60,9 in più rispetto all’anno precedente. Lo riporta l’Isin, Istituto per la sicurezza nucleare, nell’ultimo inventario annuale, che censisce il volume delle scorie presenti sul territorio nazionale, generate dallo smantellamento delle ex installazioni nucleari nostrane ma anche dalla quotidiana attività di ospedali, centri di ricerca e industrie che utilizzano sorgenti radioattive.
Sono ventisei le strutture che al momento detengono rifiuti radioattivi, riporta Isin, dai vecchi impianti del ciclo nucleare in decommissioning ai depositi privati che custodiscono le scorie nell’ambito del cosiddetto servizio integrato coordinato dall’Enea, fino al grande complesso di trattamento e stoccaggio della Casaccia, a Roma. È proprio il Lazio, si legge nell’inventario, a confermarsi la regione con il volume maggiore di rifiuti radioattivi stoccati: con oltre 10mila metri cubi ne custodisce il 31,52% del totale nazionale. In termini di radioattività, è il Piemonte a detenere invece l’intensità maggiore, con più di 2 milioni di GigaBecquerel pari a oltre il 72% del totale nazionale, seguito da Campania, Basilicata e Lombardia.
I rifiuti stoccati in Italia, chiarisce l’inventario, sono soprattutto ad attività bassa (10mila 426 metri cubi) e molto bassa (17mila 96), dal momento che le scorie ad alta attività, ovvero le barre di combustibile che venivano utilizzate per generare energia elettrica nelle ex centrali, sono state trasferite per il 99% all’estero, in Inghilterra e Francia, per essere riprocessate. Vale a dire lavorate per separare le materie fissili come uranio e plutonio, che resteranno all’estero per essere riutilizzate nel ciclo nucleare, dai prodotti di fissione, le scorie vere e proprie. Quelle, invece, dovremo riprendercele, e gli accordi internazionali siglati con i due Paesi ci obbligano a farlo entro la fine del 2025. Tutto fa pensare però che non riusciremo a tenere fede all’impegno. E che ci toccherà pagare salate sanzioni.
Una volta rientrati in Italia, infatti, i residui del riprocessamento (stimati da Isin in circa 83 metri cubi) dovrebbero essere sistemati nel futuro deposito nazionale, che però ancora non c’è e che difficilmente potrà essere entrato in funzione entro il 2025. Al momento si attende ancora il via libera del Ministero dell’Ambiente alla pubblicazione della CNAI, la carta delle aree considerate idonee a ospitarlo tra le 67 censite dal governo nel 2021, trasmessa lo scorso marzo al dicastero da Sogin, la società di Stato che dovrà progettare e gestire il deposito (e che quest’estate è stata commissariata). Stando a quanto riferito nelle scorse settimane nel corso di un question time alla Camera, prima che la CNAI possa essere pubblicata, il Ministero dovrà portare a termine le verifiche tecniche sul parere favorevole reso a novembre da Isin.
Ma la vicenda, oltre (e forse più) che tecnica, è anche politica. Solo dopo la pubblicazione della CNAI infatti potranno prendere il via le negoziazioni con le località individuate dalla Carta. Che però hanno già tutte levato gli scudi. In caso di prolungato stallo delle trattative, dovrà essere il governo a calare dall’alto la sua scelta. Una partita delicatissima, nella quale l’esecutivo, al pari di quelli che l’hanno preceduto, teme insomma di giocarsi una bella fetta di consenso sul territorio. L’ex ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani aveva indicato come termine per l’individuazione del sito il 31 dicembre del 2023. Volendo prendere per buona quella data, secondo Sogin, tra autorizzazione, gara d’appalto, costruzione e collaudo, la messa in esercizio dell’impianto potrebbe non arrivare prima del 2030. Quando saranno passati già cinque anni dal termine ultimo per la ripresa dei materiali riprocessati all’estero.
Nel frattempo, a scopo cautelativo, la Francia ha interrotto il trasferimento della restante quota di combustibile da riprocessare e “non si hanno elementi né indicazioni in merito ad una ripresa delle spedizioni a completamento dall’accordo intergovernativo”, come riporta Isin nella sua ultima relazione annuale al Parlamento. Insomma è gelo diplomatico. Nel frattempo le tredici tonnellate di combustibile da trasferire restano stoccate, in condizioni tutt’altro che ottimali, nelle piscine del vetusto deposito Avogadro di Saluggia, in provincia di Vercelli. La provincia più radioattiva d’Italia, nella regione più radioattiva d’Italia. Ironia della sorte: toccherà proprio a un piemontese, il biellese ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, sciogliere la riserva sui siti idonei a ospitare il deposito nazionale, in una delle partite più delicate della sua carriera. Chissà che alla fine non sarà il senso di appartenenza, più che il timore di una figuraccia con Parigi, a prevalere sulle valutazioni di opportunità politica e a sbloccare definitivamente la realizzazione non più rinviabile di un’infrastruttura strategica per l’intero Paese.