Una ricerca dell’Università di Tor Vergata per Biorepack rileva che nella maggior parte degli impianti di trattamento dell’organico più di un quinto dei rifiuti in ingresso viene trasformato in scarti di processo. Colpa della scarsa qualità della raccolta, ma anche dell’inefficienza degli impianti. Che per questo lavorano in perdita andando incontro alla chiusura
Nel 2022 i principali impianti di trattamento dei rifiuti organici operativi a livello nazionale hanno generato una quota di scarti pari a più di un quinto della forsu (frazione organica dei rifiuti solidi urbani) trattata. Quantità che, nella maggior parte dei casi, ha superato la soglia massima di sostenibilità economica, ovvero quella entro la quale i costi di smaltimento delle frazioni di scarto si mantengono al di sotto delle tariffe di conferimento negli impianti. Il settore del riciclo organico, insomma, sta lavorando in perdita, come rileva lo studio commissionato dal consorzio Biorepack all’Università di Tor Vergata e condotto su 112 impianti che nel 2022 hanno trattato 4,8 milioni di tonnellate di forsu, pari al 96% di quella complessivamente trattata a livello nazionale. Sul totale analizzato, 81 impianti (i tre quarti circa) hanno superato un rapporto del 20% tra rifiuti in ingresso e scarti in uscita, mentre il tasso medio si attesta al 21,9%. Ben al di sopra del limite del 15% che lo studio indica come soglia di sostenibilità economica per il ciclo dell’organico (al netto quindi dei ricavi dalla vendita di energia da biogas o biometano), visto che smaltire una tonnellata di frazione di scarti ha un costo di gran lunga superiore – più del doppio in molti casi – rispetto alla tariffa di conferimento della forsu. Di questo passo, insomma, diversi impianti di compostaggio potrebbero trovarsi costretti a chiudere.
Numeri che fanno suonare più di un campanello d’allarme. Il primo, e tutt’altro che inedito, è quello della qualità. Secondo i dati del Consorzio Italiano Compostatori, infatti, i materiali non compostabili presenti nella raccolta dell’organico hanno toccato nel 2022 la quota del 7,1%. Ben al di sopra del limite massimo del 5% fissato dai Criteri Ambientali Minimi per i servizi pubblici di raccolta rifiuti. Ma le cattive abitudini di conferimento dei cittadini non sono l’unica spiegazione dietro i numeri impressionanti degli scarti in uscita dagli impianti. Secondo calcoli del CIC, infatti, rimuovendo in maniera efficiente ogni kg di materiale non compostabile si dovrebbero ottenere in media 2 kg di scarti per effetto del cosiddetto ‘dragging factor’, ovvero della forsu che resta ‘appiccicata’ ai materiali. Ma il rapporto tra materiali estranei in ingresso e scarti in uscita dagli impianti registrato dall’Università di Tor Vergata va ben oltre la proporzione 1 a 2: non il 14,2 ma il 21,9%. Ciò significa che tra gli scarti finisce anche una quota rilevante di materiali compostabili. Incluse le bioplastiche.
Insomma, colpa dei biomateriali venduti per compostabili e che compostabili invece non sono? No, risponde Tor Vergata, visto che le bioplastiche certificate “non presentano problemi gestionali negli impianti con elevato indice di riciclo”, degradandosi e contribuendo ad aumentare le quantità di compost in uscita. Il problema, semmai, è che in molti casi – anzi, nella maggior parte degli impianti stando ai numeri dello studio – la rimozione dei materiali non compostabili è tutt’altro che efficiente e viene praticata in maniera spinta a monte del ciclo di trattamento. Per questo tra gli scarti finiscono non solo elevate quote di forsu ma anche le bioplastiche. Che “vengono scartate assieme ad altre matrici biodegradabili (gusci e noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci di potature) – si legge – e alle plastiche convenzionali, ragion per cui sono spesso ritrovate, non degradate, negli scarti”. In più, secondo l’indagine, in diversi casi vengono adottati tempi di trattamento troppo ridotti, che non consentono la piena maturazione del compost e di conseguenza la completa degradazione dei materiali compostabili. “La loro eliminazione dal processo di trattamento è quindi una mera conseguenza delle inefficienze di tali impianti“, chiarisce lo studio, e non deriva dalla natura fisico-chimica delle bioplastiche.
Insomma, più gli impianti sono inefficienti, più aumentano gli scarti e, di conseguenza, anche i costi. La soluzione migliore, scrive l’Università di Tor Vergata, resta quella di adottare configurazioni impiantistiche che prevedano la frantumazione a monte dei materiali in ingresso e la rimozione degli scarti solo a valle, al termine cioè del ciclo completo di riciclo organico. Insomma, per “massimizzare i quantitativi trattati, produrre un prodotto riciclato (compost) e minimizzare la produzione di scarti”, si legge, serve supportare l’adeguamento tecnologico degli impianti di riciclo organico. La domanda, a questo punto, è: con quali risorse? Di certo non con i margini garantiti dal mercato dei rifiuti organici, visto che lo scenario nazionale è caratterizzato da un lato, come notato dallo studio, da costi crescenti per lo smaltimento degli scarti e, dall’altro, da tariffe di conferimento sempre più basse per effetto del proliferare degli impianti e della competizione spinta soprattutto ad alcune altezze dello Stivale: secondo l’ultima rilevazione del GSE la media nazionale è compresa tra 60 e 90 euro la tonnellata, ma in Veneto e Lombardia, regioni che contano il maggior numero di strutture e alcuni dei più grandi impianti operativi a livello nazionale, i prezzi si collocano anche al di sotto dei 50 euro. Per gli impianti che non integrano le tariffe al cancello con i proventi della vendita di energia rinnovabile incentivata da biogas o biometano le prospettive di un investimento in efficienza, e forse anche quelle della mera sopravvivenza, sembrano destinate a farsi sempre più distanti.