La Commissione Europea ha adottato oggi un nuovo strumento per migliorare l’adozione, tra i Paesi membri, delle politiche ambientali già adottate dall’Unione. Si chiama Environmental Implementation Review, sostanzialmente una revisione periodica dello stato dell’arte sull’implementazione delle politiche ambientali nei singoli 28 Stati, che produce una documentazione dedicata ad ogni Nazione sottolineando le criticità e i punti di forza di ogni legislazione, aggiungendo anche i suggerimenti della Commissione sulle azioni da adottare sia sul lungo termine (e quindi come impegno più strutturale) che nel breve (e cioè suggerendo quali azioni potrebbero produrre il miglior risultato con leggeri adeguamenti legislativi).
Qualità e gestione delle acque, inquinamento dell’aria, inquinamento acustico, natura e biodiversità: sono queste le materie toccate dalla prima revisione delle politiche ambientali comunitarie, ma ovviamente al primo posto resta la gestione dei rifiuti. Nel settore del waste management per tutti i membri dell’Europa a 28 una politica efficace di prevenzione della produzione dei rifiuti resta una sfida aperta, mentre solo in 6 sono in ritardo cronico rispetto alle limitazioni dei conferimenti di rifiuti organici in discarica. La spinta del legislatore europeo resta quella di raggiungere i target fissati al 2020, con l’incentivo che viene dalla previsione di poter creare 400mila posti di lavoro nel settore.
La sfida della gestione dei rifiuti resta al primo posto tra quelle da affrontare anche per l’Italia, come puntualizzato nella scheda riassuntiva dedicata dalla Commissione al nostro Paese, e come si legge in maniera più puntuale nel country report dedicato alle politiche ambientali del bel Paese. Il primo parametro di giudizio è l’avvicinamento all’indirizzo del pacchetto di misure per l’economia circolare (che non è ancora una direttiva, ma che ha ormai una filosofia ben strutturata): secondo il report in effetti all’Italia non mancano iniziative lodevoli su scala regionale, dove negli ultimi mesi a più o meno buon titolo molti governi hanno sbandierato l’adesione ai princìpi della circular economy, ma di sicuro non esiste alcuna politica nazionale per la programmazione di un’economia circolare. L’esempio più vicino ad un dispositivo di legge organico sul tema è il cosiddetto “Green Act”: peccato che sia scomparso dal dibattito pubblico dopo il suo annuncio all’alba del 2015, per riemergere solo sulla carta come nota di aggiornamento del DEF 2016 pubblicata lo scorso ottobre (pag.121) in cui si scrive che la riforma è attesa entro il 2017. Solo il tempo ci dirà se tale previsione dovrà finire per inscriversi nella categoria delle buone intenzioni o se effettivamente si andrà a realizzare, ma di certo il quadro politico attuale non pare dei più favorevoli.
Buona la valutazione anche sulle misure adottate con la legge Green Economy (o ex Collegato Ambientale), assieme all’esistenza di un piano nazionale sulla prevenzione del food waste cui da fine agosto si è aggiunta l’azione della legge antisprechi e un buon corredo di buone pratiche su scala locale, come le prestazioni del Comune di Milano (dove la raccolta della forsu è la migliore al mondo per una città con oltre 1 milione di abitanti, producendo anche un effetto domino positivo sulle amministrazioni circostanti). Secondo uno studio della Commissione europea, l’Italia utilizza principalmente iniziative e accordi volontari, nonché regole non giuridiche per prodotti e servizi e in più – si legge ancora nel report – è di gran lunga lo Stato membro più attivo nell’utilizzo di EMAS e ha il maggior numero di prodotti ecolabel dell’UE. Anche in termini di produttività delle risorse (e cioè nel rapporto tra PIL e consumo interno di materia) l’Italia si comporta bene, ottenendo prestazioni al di sopra della media europea: ben 3,04 €/kg contro i 2 €/kg dell’Unione a 28.
Proprio su questo fronte, però, iniziano a prendere corpo le contraddizioni del sistema Italia dove le PMI sono spina dorsale dell’economia, ma tra le stesse i valori di produttività e prestazioni ambientali risultano ben al di sotto della media europea. Un dato che non può passare inosservato e che è figlio di un sistema in cui il sostegno pubblico alle piccole aziende che partecipano alla green economy – sempre secondo il report – sarebbe “esiguo”. «La transizione – si legge – verso un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse si tradurrà in nuovi posti di lavoro legati al riutilizzo, alla riparazione o al riciclaggio. In Italia, si potrebbero creare 117 000 nuovi posti di lavoro e si potrebbero garantire 327 000 posti di lavoro se le PMI in quattro settori (prodotti alimentari e bevande; energia, energia elettrica e pubblici servizi; tecnologie ambientali; edilizia) utilizzassero appieno il loro potenziale in termini di efficienza delle risorse».
Andando a toccare più specificamente il comparto del waste management, i dati restituiscono un’Italia in chiaroscuro. Il trend nazionale della produzione di rifiuti è in costante riduzione così come per quello del conferimento in discarica a favore di un miglioramento delle statistiche di riciclo e compostaggio, ma non sfuggono le contraddizioni su base territoriale: le ragioni individuate dalla Revisione della Commissione stanno principalmente nella tardiva industrializzazione del settore nelle regioni meridionali (come dimostrano i costanti miglioramenti della Campania iniziati soltanto negli anni successivi all’emergenza), ma tra i fattori contano molto lo spreco variabile e le tariffe applicate per il conferimento in discarica nelle varie regioni. A questo proposito l’Ue ha elaborato anche una roadmap per il Sud Italia in cui si cerca di colpire i principali motivi di ritardo del Meridione: trattamento dei rifiuti avviati a smaltimento, potenziamento della differenziata e difficoltà (principalmente causata dall’opposizione dei territori) alla realizzazione degli impianti necessari. Mentre per quanto riguarda incentivi e tariffe, allargando lo sguardo sull’intero territorio, più delle politiche nazionali hanno pesato positivamente quelle locali. «Nella regione Marche – si legge – la tassa sulle discariche che deve essere versata dai comuni viene progressivamente ridotta in base al tasso con cui vengono superati gli obiettivi nazionali di raccolta differenziata. In Emilia-Romagna, che nel 2010 ha raggiunto il 19% di riciclaggio organico della produzione totale di rifiuti urbani, al fine di promuovere l’uso di compost, gli agricoltori ricevono sussidi pari a 150-180 EUR per ettaro».
Lo Sblocca Italia per integrare il sistema di incenerimento e la capacità di compostaggio sul territorio rientra tra le misure in grado di allineare l’Italia agli obiettivi inclusi nella tabella di marcia sull’efficienza delle risorse, in grado di creare oltre 83mila posti di lavoro e un aumento del fatturato annuo del settore dei rifiuti di oltre 8,8 miliardi di euro. Le azioni suggerite da Bruxelles per migliorare la gestione dei rifiuti in Italia rientrano sostanzialmente nel paradigma che chiede una maggiore armonia tra i vari livelli legislativi e amministrativi (nazionale-regionale-locale) con una tassazione nazionale sulle discariche o comunque un’armonizzazione delle imposte regionali (per evitare un turismo dei rifiuti basato sulla convenienza delle singole amministrazioni) così da produrre una fiscalità in entrata a sostegno della differenziata e delle infrastrutture necessarie per il trattamento del residuo. Senza contare la necessità di migliorare l’efficienza sotto il profilo dei costi, del monitoraggio e della trasparenza dei regimi vigenti di responsabilità estesa del produttore. Non a caso tra le politiche viste di buon occhio dall’analisi europea c’è la voce contenuta nel cronoprogramma del DEF 2016 (pag. 58) in cui si prevedeva entro la fine dello scorso anno l’entrata in vigore della nuova Authority sui rifiuti, del definitivo passaggio della natura della Tari da tassa a tariffa e della riforma dei consorzi. E se le cose migliori che emergono dalla revisione sono quelle che alla fine non abbiamo fatto, qualche cosa vorrà pur dire.