«I TMB sono obsoleti e servono solo a cambiare codice ai rifiuti trattati, mentre l’economia circolare si fa con impianti avanzati per il recupero di materia» ha dichiarato Laura D’Aprile, capo della direzione generale economia circolare del Ministero dell’Ambiente
No ai TMB, sì a un ampio piano di riforme per garantire la “messa a terra” entro il 2026 degli impianti di riciclo che saranno finanziati con i fondi Next generation Eu. Questa la posizione del governo su Recovery Plan ed economia circolare, emersa nel corso del dibattito web andato in onda questa mattina su Ricicla.tv. Accantonata definitivamente l’ipotesi di destinare una parte degli stanziamenti alla costruzione di impianti di trattamento meccanico biologico, come si leggeva nelle prime bozze del Piano nazionale di ripresa e resilienza. «Un errore – dice Laura D’Aprile, a capo della direzione generale economia circolare del Ministero dell’Ambiente – prontamente corretto anche su segnalazione del Ministero. I TMB sono obsoleti e servono solo a cambiare codice ai rifiuti trattati, mentre l’economia circolare si fa con un’adeguata dotazione di impianti avanzati per il recupero di materia. Per selezionare i progetti dai inserire nel Piano ci siamo fatti guidare dai principi dell Piano d’azione europeo per l’economia circolare, ma fattori condizionanti sono stati anche la garanzia di “messa a terra”, cioè di effettivo completamente delle opere entro il 2026, e la capacità di spesa dei soggetti che dovranno realizzarle».
Dei 6 miliardi che il PNRR destina al capitolo economia circolare e agricoltura sostenibile «1,5 andranno alla realizzazione di nuovi impianti per il riciclo – ha chiarito Elio Catania, consulente del Ministero dello Sviluppo economico – mentre 2,2 verranno messi a bando per progetti di riconversione circolare delle imprese. Avevamo chiesto di più – ha spiegato – ma alla fine la politica ha optato per questa ripartizione. Il cuore della questione però è un altro – ha detto – ovvero la necessità di mettere mano a riforme di semplificazione su questioni chiave come codice degli appalti, valutazione d’impatto ambientale, procedimenti autorizzativi, caratterizzate da lungaggini che disincentivano gli investimenti e rallentano i tempi d’attuazione delle opere».
«Per come è fatto, il sistema non permette di concretizzare gli investimenti – ha spiegato Alessandro Marangoni, CEO di Althesys – problema che va al di là del dibattito su quale sia la tecnologia di trattamento migliore sulla quale allocare fondi. Nelle rinnovabili ad esempio, sulla carta la filiera del permitting (autorizzazioni, Via, conferenze di servizi, eccetera) dovrebbe durare meno di tre anni. Un qualsiasi operatore dell’eolico vi dirà che in realtà per autorizzare la costruzione di un impianto ci vogliono sette-otto anni». «Credo che la priorità debba essere quella di stabilire procedure autorizzative che sostituiscano quelle ordinarie – ha sottolineato Chicco Testa, presidente di FISE Assoambiente – il Recovery potrebbe essere l’occasione per rivedere profondamente le modalità di governance degli investimenti nel nostro Paese. Se non lo facciamo siamo condannati all’inedia totale». «Spendere 200 miliardi entro il 2026 sembra fantascienza – ha concluso Stefano Ciafani, presidente di Legambiente – ma dobbiamo riuscirci, facendo le riforme che da anni l’europa ci chiede. Per questo serve un governo, speriamo lo si trovi nel minor tempo possibile, ma serve soprattutto una forte volontà politica. Quella che è mancata fino ad oggi».