Tra qualche anno le tecnologie di riciclo chimico potranno ridare nuova vita alle plastiche miste che oggi finiscono a recupero energetico, garantisce il presidente di Corepla Giorgio Quagliuolo. Nel frattempo il consorzio si prepara alla svolta lanciando un nuovo sistema di aste per collocare il plasmix sul mercato del recupero
Il plasmix non fa più paura come una volta. Le plastiche miste derivanti dalla selezione delle nostre raccolte differenziate, oggi difficili se non impossibili da collocare sul mercato del riciclo meccanico, restano uno dei principali ostacoli da rimuovere sul percorso verso i target fissati dalle direttive europee sull’economia circolare, ma le nuove tecnologie aprono prospettive incoraggianti. “Non sono più quel diavolo che faceva scappare tutti”, ironizza Giorgio Quagliuolo, presidente di Corepla, il consorzio del sistema Conai per il riciclo del packaging polimerico, che ogni anno gestisce circa 600mila tonnellate di plasmix, avviandole prevalentemente a recupero energetico. “Per tre quarti finiscono nei cementifici e per il resto nei termovalorizzatori – dice Quagliuolo – ma in prospettiva il plasmix potrà trovare applicazioni diverse anche nel mondo del riciclo”. Il riferimento è alle nuove tecnologie di riciclo chimico, che da qualche anno catalizzano le attenzioni e gli investimenti dell’industria, anche se in una dimensione per ora quasi esclusivamente sperimentale. “Si tratta di tecnologie di pirolisi – spiega il presidente di Corepla – che dalle plastiche miste ricavano un olio, che raffinato e trasformato in virgin nafta a sua volta può tornare nei ‘cracker’ e dì lì a nuova vita nei prodotti chimici. L’intera operazione a quel punto conterebbe come riciclo e varrebbe ai fini del calcolo delle performance italiane da confrontare con gli obiettivi europei. È un percorso complesso, occorreranno non meno di 4 o 5 anni, ma sono fiducioso”.
Il mercato delle plastiche miste, insomma, sembra destinato a cambiare e il consorzio vuole farsi trovare pronto all’appuntamento. Anche per questo Corepla ha aperto il 2022 con il lancio di un nuovo sistema di aste on-line per la collocazione del plasmix. che andrà ad affiancare in via sperimentale le tradizionali modalità basate sulla contrattazione con i singoli fornitori di servizi di recupero energetico. “Abbiamo ritenuto opportuno uscire da una logica di somministrazione – chiarisce Quagliuolo – e distribuire i nuovi quantitativi secondo logiche più legate all’andamento del mercato, tanto più alla luce dell’affacciarsi dei nuovi operatori del riciclo”. E anche se gli effetti dello sviluppo industriale del riciclo chimico non si vedranno prima di qualche anno, in termini di benefici economici il nuovo sistema di aste promette di restituire i primi risultati già a breve. “Recuperare energeticamente il plasmix comporta un costo per il consorzio – spiega il presidente – e quel costo oggi è negoziato singolarmente con i diversi attori, che si tratti di impianti di termovalorizzazione o di cementifici. Un sistema basato sulle aste, e quindi sulla maggiore competitività di mercato, potrebbe tradursi in risparmi sui costi di gestione. Puntiamo a ottenere i famosi ‘due piccioni con una fava’ per dirla in sintesi”.
Entro i prossimi tre anni, dice l’Europa, l’Italia dovrà essere capace di riciclare il 50% dei propri rifiuti da imballaggio in plastica. Nel 2021, secondo stime di Corepla, la percentuale oscillerebbe tra il 42 e il 46%. Il gap non è impossibile da colmare, ma oltre che sperare nello sviluppo su scala industriale del riciclo chimico occorre anche lavorare per ridurre la quota di imballaggi che oggi non è compatibile con le tradizionali tecnologie di riciclo meccanico e che, a valle dei processi di selezione, finisce per ingrossare le balle di plasmix. “Le sorti di un imballaggio sono determinate all’80%, se non di più, dal modo in cui viene progettato – spiega Quagliuolo – più è complesso e più è difficile da riciclare”. Secondo il presidente di Corepla, oggi sul design più o meno sostenibile del packaging “pesano molto le dinamiche di marketing dei brand owner, che sono molto difficili da cambiare, così come le esigenze di settori particolari, come quello alimentare”. Come se ne esce? “Un buon punto di partenza – dice – sarebbe cominciare a non rendere ‘irriciclabili’ gli imballaggi che invece lo sono. Se agghindiamo le bottiglie in PET con etichette in pvc coprenti, ad esempio, ne rendiamo più difficile la selezione e quindi l’avvio a riciclo”.
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