Nel 2024 rallenta l’adozione di pratiche di economia circolare da parte delle imprese italiane. Secondo il Politecnico di Milano l’industria nazionale sta sfruttando solo il 14% del potenziale di circolarità
Nel 2024 l’adozione di pratiche di economia circolare – dal riciclo alla ecoprogettazione fino alla riduzione dei rifiuti – ha fatto risparmiare alle aziende italiane 16,4 miliardi di euro, dato in crescita di circa 800 milioni rispetto all’anno precedente. Quando, tuttavia, i risparmi legati alla circolarità erano aumentati di 1.200 milioni di euro. Il passo della transizione, insomma, sta rallentando e difficilmente potrà arrivare a raggiungere entro il 2030 l’obiettivo di risparmio teorico calcolato in 119 miliardi di euro. Di fatto l’economia italiana sta sfruttando solo il 14% del proprio potenziale di circolarità, calcola il team Energy&Strategy del Politecnico di Milano nella quinta edizione del Circular Economy Report, realizzato su un campione di oltre 550 imprese, rappresentative del tessuto industriale del nostro Paese in 8 macro settori.
Nel 2024, si legge, quasi una impresa su due – il 42% – ha adottato almeno una pratica di economia circolare, ma il 36% resta scettico, mentre nel segmento delle PMI gli scettici – il 39% e in crescita – superano addirittura gli adottatori (37%). Differenze dimensionali che si associano alla disomogeneità territoriale: il 31% delle imprese circolari, infatti, ha sede in Lombardia e la presenza è in genere più massiccia nel Nord Italia. Nel complesso, gli interventi hanno consentito un taglio di 2,3 MtCO2eq, “pari ad appena il 14% delle circa 16,8 MtCO2eq che sarebbero risparmiabili al 2030 nel caso in cui il potenziale sviluppo dell’economia circolare nel nostro Paese venisse raggiunto”.
L’analisi settoriale, si legge nel report, evidenzia che tutti i macro-settori si trovano in una fase di transizione verso l’economia circolare, con la quasi totalità dei settori che supera un punteggio di 2 ed un valore medio di 2,24 su 5. “È purtroppo evidente come le pratiche di economia circolare non siano entrate nel core business delle imprese – commenta Vittorio Chiesa, direttore di Energy&Strategy – e si sia invece, prendendo a riferimento la totalità del campione, in una fase ancora esplorativa delle possibili soluzioni”. Sul piano finanziario cresce, anche se solo del 5%, la taglia media degli investimenti, che restano però concentrati sotto i 50.000 euro (quasi il 50%) e con tempi di ritorno che, per il 41% delle imprese, sono inferiori ai 12 mesi. A testimonianza di quanto l’adozione di pratiche di circolarità sia ancora limitata se non occasionale, lontana cioè dall’essere espressione della piena ridefinizione di processi produttivi e modelli di business lungo l’intera catena del valore.
Tra le soluzioni di economia circolare più diffuse spicca ancora il riciclo (60%), seguito dal progettare senza scarti (43%) e dal design orientato a una facile riparazione (48%). Tra le pratiche meno applicate si trovano invece la riparazione (8%), la ‘servitizzazione’ (il passaggio dalla vendita di un prodotto alla fornitura di servizi, 22%) e la riconsegna dei prodotti (28%). “È successo un po’ come nel risparmio energetico – spiega Davide Chiaroni, vicedirettore di E&S – finché si trattava di fare interventi semplici e poco dispendiosi, in questo caso recuperare e valorizzare gli scarti, è andato tutto bene, ma adesso che occorre investire nella riorganizzazione dei processi industriali e delle filiere, la questione cambia”.
Prova ne sia il fatto che, come si legge nel report, nel confronto temporale sono le grandi aziende a registrare la crescita più significativa, dal 2022 ad oggi (+21%), sia nella percentuale di adottatori sia in quella di imprese interessate a future implementazioni, mentre le piccole imprese, per contro, continuano a incontrare ostacoli economici e operativi. Tra i principali fattori di freno l’incertezza e l’incoerenza delle politiche governative, oltre agli elevati costi di investimento e ai lunghi tempi di ritorno sull’investimento. Su entrambi i fronti, chiarisce tuttavia il report, non mancano le note positive. A partire da un mercato dei capitali sempre più orientato alla promozione di modelli di sostenibilità. “I green bond emessi dalle principali banche italiane – chiarisce Chiesa – hanno raggiunto quasi 8 miliardi di euro, il 74% in più rispetto all’anno precedente. E sta crescendo anche la consulenza in ambito sostenibilità (+25%)”. Sul piano della normativa, invece, Green Deal e Circular Economy Action Plan continuano a guidare la transizione, spiega il report. Le normative sull’ecodesign, il diritto alla riparazione e, soprattutto, la responsabilità estesa del produttore “stanno trasformando radicalmente la value chain, promuovendo pratiche sostenibili in tutte le fasi del ciclo di vita dei prodotti”. Un quadro di policy che, se correttamente recepite e applicate anche a livello nazionale, faranno da stimolo per innovazione e investimenti.
Se normative e capitali si muovono nella direzione giusta, avverte tuttavia lo studio, lo stesso non si può dire degli strumenti e delle competenze di supporto alle imprese per calare la circolarità nei propri processi produttivi. Se da un lato infatti “l’interesse nei confronti dell’economia circolare sta registrando una crescita significativa in tutti i servizi a supporto” dall’altro “l’ecosistema necessario per favorire la transizione verso modelli circolari non risulta ancora pienamente sviluppato”, con differenze territoriali. L’analisi mostra ad esempio che gli studi legali e gli enti di certificazione che forniscono supporto alla circolarità sono principalmente concentrati in Lombardia e nel Lazio, mentre risultano praticamente assenti nel sud Italia. Altro nodo la mancanza di omogeneità tra gli strumenti, gli standard e i criteri tecnici per la misurazione delle performance, che “rende difficile confrontare i risultati e ostacola la trasparenza e la comparabilità tra aziende e settori”. “La mancanza di un’integrazione efficace tra i diversi attori, combinata con l’assenza di standard consolidati, rappresenta una sfida cruciale – commenta Chiaroni – la frammentazione rende difficile per le imprese accedere a un’assistenza coordinata e strutturata, limitando la loro capacità di implementare strategie circolari in modo completo”.