Secondo Conai la bozza di regolamento UE sugli imballaggi “rappresenta un veicolo normativo inadeguato”. Ruini: “Quello italiano è un modello da difendere”. Un’analisi comparata realizzata dal consorzio sottolinea gli impatti dell’introduzione di un nuovo regime di deposito cauzionale per le bottigliette in PET, soluzione “non necessaria, e tantomeno opportuna” per il nostro Paese
Con il 73,3% di riciclo raggiunto nel 2021 il sistema italiano di gestione dei rifiuti da imballaggio ha già centrato e superato gli obiettivi europei al 2025 e viaggia spedito verso quelli al 2030, ma sulla corsa dell’Italia pende la spada di Damocle del nuovo regolamento europeo, che dovrebbe essere presentato dalla Commissione UE il prossimo 30 novembre e che stando alle bozze circolate in questi giorni rischia di “penalizzare maggiormente chi in questi anni ha prodotto maggiori sforzi per trovare soluzioni adatte rispetto al proprio tessuto produttivo e alla regolamentazione locale”. A rimarcarlo è un position paper di Conai, consorzio nazionale imballaggi, secondo cui “la proposta di regolamento rappresenta un veicolo normativo inadeguato rispetto alla sua portata di impatto”. Critiche che vanno ad aggiungersi a quelle già sollevate nei giorni scorsi da Confindustria e dallo stesso Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.
A differenza dello strumento utilizzato fin qui per disciplinare il settore, quello della direttiva, il regolamento non si limiterà a definire gli obiettivi, lasciando agli Stati membri la scelta delle strategie da mettere in campo per raggiungerli, ma entrerà “nel merito delle modalità da adottare a livello locale”, spiega Conai. Un modello calato dall’alto “in contrasto con il concetto di adattabilità al contesto di riferimento” che rischia “di vanificare anni di innovazioni e investimenti” e di imporre “costi a carico dei sistemi EPR vigenti nei singoli Stati Membri, senza considerare i livelli di efficacia e di efficienza oggi raggiunti”. “Se si fa un confronto con gli altri modelli attivi in Europa – spiega il presidente di Conai Luca Ruini – il modello italiano basato sulla raccolta differenziata in convenzione con i comuni risulta essere quello che porta a casa i migliori risultati al minor costo“. Riuscendo così a garantire elevate performance ambientali (Il nostro Paese oggi è secondo – superando anche la Germania – per quantità di imballaggi avviati a riciclo pro-capite) ma anche a preservare la competitività dell’industria nostrana del packaging, da sempre costretta a fare i conti con costi dell’energia e delle materie prime superiori rispetto a quelli dei principali competitor europei.
Proprio in termini di costi, uno degli elementi di maggiore criticità stigmatizzati da Conai è il riferimento al modello del deposito cauzionale (o DRS, Deposit Return Scheme) che la bozza di regolamento individua come regime da adottare in maniera preminente (entro il gennaio 2028) per garantire la raccolta e l’avvio a riciclo dei contenitori per liquidi alimentari. A partire da quelli in PET, per i quali la direttiva SUP ha già fissato un ambizioso obiettivo di raccolta del 77% da raggiungere entro il 2025, passando al 90% entro il 2029. Secondo Conai l’introduzione di un regime DRS rappresenterebbe per l’Italia “una duplicazione inutile di costi economici ed ambientali – scrive il consorzio – laddove esiste già un circuito efficace di raccolta differenziata e valorizzazione” che già oggi per i contenitori in materiali diversi dalla plastica garantisce “tassi prossimi al 90% grazie alla raccolta differenziata tradizionale, come per le lattine di alluminio”, mentre per il PET, spiega il presidente Ruini, l’obiettivo può essere raggiunto “integrando la raccolta differenziata tradizionale con specifiche raccolte selettive“.
Insomma, meglio potenziare l’attuale sistema piuttosto che introdurre un regime alternativo che andrebbe “ad affiancare, senza sostituirsi in tutto, alle raccolte differenziate tradizionali”, osserva Conai. Con impatti in termini di costi e di tempi di realizzazione che, sottolinea il consorzio, lo rendono “una soluzione non necessaria, e tantomeno opportuna” per il nostro Paese. Stando a un’analisi comparativa condotta da Conai e dallo studio di consulenza Strategy&, per sostituire del tutto l’attuale sistema di raccolta differenziata per i contenitori per liquidi in PET con un nuovo modello basato sul regime DRS occorrerebbero non meno di sei anni. A quel punto, per raggiungere gli obiettivi di raccolta al 2029 servirebbe intercettare l’intero immesso a consumo annuale, pari a circa 450mila tonnellate di contenitori. Cosa che a sua volta comporterebbe la necessaria installazione di almeno 100mila ‘Reverse Vending Machine’, per un investimento iniziale stimato in almeno 2,3 miliardi di euro e un costo di gestione di 350 milioni di euro annui. Ai quali aggiungere la spesa derivante dalla messa a punto di un sistema informatico centralizzato “che renda possibile ottenere la cauzione dalle Alpi a Lampedusa” e che, sulla base di quanto fatto in altri Paesi europei, “potrebbe richiedere un investimento stimato tra i 500 milioni e il miliardo di euro“.
Conservando l’attuale regime, spiega invece Conai, resterebbero da intercettare solo 70mila tonnellate aggiuntive, un gap da colmare puntando su nuovi e più capillari strumenti come gli ECP, Engineered Collection Point (meglio conosciuti come ecocompattatori o ‘macchinette mangiaplastica’), che richiederebbero “investimenti iniziali nell’ordine massimo di 270 milioni di euro e costi operativi inferiori ai 30 milioni di euro annui”. Nettamente più contenuti anche i tempi di realizzazione, stimati nell’ordine dei 2 o 3 anni per un numero di ECP compreso tra i 6mila e i 17mila. Senza oneri a carico dell’industria del packaging, come la necessità di definire etichettature specifiche o di finanziare sistemi informatici centralizzati, e senza introdurre alcuna cauzione a carico del consumatore finale. “Cercheremo di dialogare con la Commissione europea per sottolineare che il modello italiano, simile a quello spagnolo, deve essere difeso”, dice Luca Ruini.