Entro il 2030 l’utilizzo di materia riciclata in sostituzione di risorse vergini potrebbe garantire il taglio di un miliardo di tonnellate di CO2 e oltre 400 miliardi di dollari di contributo al PIL mondiale. Per questo l’Ue punta a farne una delle pietre angolari del piano per la decarbonizzazione competitiva. Prima però serve rilanciare la domanda di materiali secondari
Consumi energetici ridotti, quindi minori emissioni. Minore necessità di estrarre risorse vergini in natura, quindi ridotta pressione sugli ecosistemi. Ma anche maggiore autonomia e resilienza delle catene di approvvigionamento. Tema strategico, nei nuovi scenari di competizione globale. Nell’era della policrisi, tra emergenza climatica, conflitti a ogni latitudine per il controllo di territori e risorse e perdita di biodiversità dovuta alle pressioni ambientali dello sviluppo economico e tecnologico, quella di recuperare dai rifiuti una quota crescente delle materie prime necessarie all’industria e alla manifattura è una scelta ineludibile.
Lo ricorda anche quest’anno il Global Recycling Day, fissato dall’ONU al 18 marzo per sottolineare che accanto alle sei risorse naturali che hanno tradizionalmente alimentato lo sviluppo economico e sociale sul pianeta – acqua, aria, carbone, gas naturale, petrolio e minerali – disponibili in quantità sempre più limitate e il cui sfruttamento intensivo mette a repentaglio interi ecosistemi, oltre che milioni di famiglie e imprese, serve considerare la materia riciclata come una ‘settima risorsa’. Indispensabile per ridurre il ritmo al quale le risorse naturali vengono estratte e consumate, che secondo l’ultimo Global Resources Outlook dell’ONU nel 2024 ha raggiunto i 106,6 miliardi di tonnellate. Un peso insostenibile per il pianeta, tanto più se si considera che l’estrazione e lavorazione di risorse naturali è causa del 55% delle emissioni climalteranti.
Già oggi, spiegano invece i promotori della giornata, l’utilizzo di materia riciclata contribuisce annualmente al taglio di 700 milioni di tonnellate di CO2, che potrebbero toccare il miliardo nel 2030. Benefici ambientali ai quali nell’arco dei prossimi dieci anni si sommeranno quelli economici, stimati in oltre 400 miliardi di dollari l’anno di contributo al PIL mondiale. Numeri che spiegano perché la Commissione europea punti a fare del riciclo uno degli elementi portanti del nuovo piano d’azione per una decarbonizzazione competitiva, che vede nella circolarità – quindi anche nel recupero di materia dai rifiuti, “il solo modo per tenere il passo dei competitor internazionali ricchi di risorse”, come si legge nel Clean Industrial Deal presentato qualche giorno fa da Bruxelles per tracciare il nuovo corso della politica industriale dell’Unione. Per l’Europa, che ogni anno ha bisogno di importare elevate quantità di materie prime da trasformare, il riciclo non è solo un tema ambientale, infatti, ma una scelta strategica dalla quale nei prossimi anni potrebbe dipendere la sopravvivenza di settori chiave dell’economia.
In attesa del Circular Economy Act, annunciato per il 2026, il recupero di risorse dai rifiuti intreccia per questo già diversi dossier cruciali per il futuro dell’Ue: dal Critical Raw Materials Act, che fissa al 2030 un obiettivo di riciclo del 25% per i minerali strategici utilizzati dall’industria europea, al regolamento sulle batterie, che dal 18 agosto 2031 obbligherà chi immette accumulatori sul mercato dell’Ue a utilizzare almeno il 16% di cobalto, l’85% di piombo, il 6% di litio e il 6% di nichel provenienti dal riciclo. Dal nuovo regolamento sul riuso delle acque reflue, che punta a portare da 1 a 6 miliardi di metri cubi l’acqua depurata da reimpiegare, tra l’altro, in un’agricoltura sempre più segnata dallo stress idrico, al nuovo regolamento sugli imballaggi, che in tema di plastica fissa nuovi target di contenuto minimo riciclato del 35% al 2030 e del 65% al 2040.
L’obiettivo dichiarato da Bruxelles è quello di fare dell’Ue il “leader mondiale dell’economia circolare entro il 2030” e di portare il tasso di uso circolare delle risorse al 24%. Facendo in modo cioè che quasi un quarto della materia consumata dall’industria europea provenga dai rifiuti. E che quindi non debba essere più estratta in natura né tanto meno acquistata sui mercati internazionali, spesso da fornitori sempre meno affidabili. Il percorso, però, è tutto in salita. Secondo la European Environment Agency, anche se calata del 4,5% su base annua, nel 2023 l’impronta materiale di ogni cittadino Ue, ovvero il consumo medio di risorse naturali necessarie a produrre beni e servizi, ammontava a 14,1 tonnellate, mentre il tasso di utilizzo circolare di materia, ovvero la sostituzione di risorse riciclate a quelle vergini, era fermo all’11,8%. Meno della metà del nuovo obiettivo europeo.
L’Italia, storicamente povera di materie prime naturali e per questo forte di una consolidata tradizione di riciclo industriale, può vantare un tasso di uso circolare delle risorse del 20,8%, che almeno in teoria la vede proiettata verso il target Ue al 2030. A trainare la corsa sono comparti industriali d’eccellenza, come quelli siderurgico e cartario – entrambi al vertice in Europa per consumo di materia riciclata – ma anche filiere virtuose come quella del packaging e del riciclo organico. Ma anche dalle nostre parti non mancano le ombre. Secondo il dossier ‘L’Italia che ricicla’ curato da Ref per Assoambiente, infatti, se il valore aggiunto del settore si attesta al 2,5% del PIL, al di sopra della media europea del 2,1% e delle altre maggiori economie europee, il dato sugli investimenti, pari allo 0,7% del PIL, la colloca al di sotto della media europea e dei maggiori Paesi, come Francia (0,8%) e Germania (0,9%). Una frenata con ripercussioni anche sul piano occupazionale, con l’Italia che continua a detenere il primato per numero di occupati – circa 613 mila i lavoratori a tempo indeterminato nei settori del riciclo, riparazione, riutilizzo – ma perde oltre 30 mila posti di lavoro rispetto al 2020. Unica diminuzione tra le principali economie Ue.
Tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, insomma, serve un cambio di passo. Che parta soprattutto dal rilancio della domanda di materia riciclata e dal superamento del gap di prezzo che in molti casi continua a rendere più conveniente il consumo di risorse vergini. Nell’attesa di conoscere il Circular Economy Act dell’Ue, sia a livello nazionale che europeo gli operatori della gestione dei rifiuti e del riciclo chiedono per questo l’attivazione di meccanismi di incentivazione basati sui benefici energetici e climatici determinati dall’utilizzo di risorse riciclate. Benefici che oggi, invece, non determinano un vantaggio economico né per chi produce materia riciclata né per chi la utilizza. Eppure, secondo uno studio condotto da ENEA e Utilitalia, nel caso del cartone, filiera simbolo dell’economia circolare ‘made in Italy’, il risparmio di energia misurato dalla ricerca equivale a 0,25 tonnellate di petrolio equivalente per tonnellata di materia prima secondaria utilizzata, per il vetro 0.58 TEP/t, per il PET (il polimero della plastica delle bottiglie di acqua minerale) 1,11 TEP/t, per l’acciaio 2,86 TEP/t, risparmio energetico che può essere espresso anche come emissioni climalteranti evitate.