L’utilizzo del compost nella manutenzione del verde pubblico può strappare aiuole e parchi al degrado, ma anche aiutare i centri urbani a resistere meglio al cambiamento climatico, trasformandoli in veri e propri sistemi di cattura della CO2. Le buone pratiche, tuttavia, si contano sulle dita di una mano. “Serve un upgrade culturale”, spiega Francesco Ferrini, professore all’Università di Firenze
Erba alta, alberi secchi e qualche rifiuto qua e là. È così che spesso si presentano, soprattutto nei grandi centri cittadini, le aree verdi urbane. Messe male, e sempre più minacciate dal cemento. Secondo ISTAT, nelle città italiane l’estensione del verde fruibile oggi supera solo in due casi i 100 metri quadrati per abitante, mentre in alcuni comuni si scende addirittura sotto i 5. Complessivamente, stando all’ultima rilevazione, la media non supera i 20. Eppure, se ben gestito, il verde urbano potrebbe non solo determinare benefici ecosistemici e ricadute positive sul piano sociale ed economico – ad esempio in termini di spesa sanitaria – ma anche contribuire a trasformare le nostre città in ‘biocittà’, un baluardo contro il cambiamento climatico. Rendendole più resistenti agli eventi atmosferici estremi, da un lato, e dall’altro trasformandole in un vero e proprio sistema esteso di cattura della CO2. Come? Con il compost.
“Sappiamo bene che il compost stimola lo sviluppo di microrganismi benefici come funghi micorrizici o batteri utili che migliorano la salute delle piante e ne incrementano la tolleranza a diverse malattie – spiega Francesco Ferrini, professore all’Università di Firenze – nei nostri studi abbiamo verificato una maggiore sopravvivenza degli alberi e una minore necessità di irrigazione grazie alla maggiore ritenzione idrica garantita dal compost. Tutto questo – aggiunge – si traduce in una maggiore capacità di assorbimento del carbonio. Perché le piante crescono di più e, di conseguenza, ne sequestrano di più”. Evitandone il rilascio in atmosfera nella forma più dannosa, quella della CO2, “cosa che – chiarisce Ferrini – va a beneficio della lotta al cambiamento climatico”.
Secondo il Consorzio Italiano Compostatori, ogni tonnellata di fertilizzante naturale prodotto dal recupero dei rifiuti organici può sequestrare dall’atmosfera tra i 78 e i 130 kg di CO2 equivalente. Benefici in termini di mitigazione del climate change che si associano a ulteriori vantaggi sul fronte dell’adattamento. Come la maggiore azione di raffrescamento garantita dal verde in salute, baluardo contro le ondate di calore, ma non solo. “Nelle sperimentazioni condotte utilizzando il compost come ammendante o pacciamante – spiega infatti Ferrini – aumenta la fertilità e la ritenzione idrica del suolo” e questo permette di “ottenere terreni più soffici e porosi, mentre in ambiente urbano di solito sono compatti, non drenano bene l’acqua o non la lasciano infiltrare“. E la cosa, a sua volta, contribuisce ad aggravare gli effetti di eventi metereologici estremi, come le bombe d’acqua che con frequenza crescente si abbattono sui nostri centri abitati, provocando danni e, nei casi più gravi, vittime. Che vanno a sommarsi alle almeno 13 persone che, secondo l’Università di Firenze, negli ultimi 50 anni in Italia hanno perso la vita investite dal crollo di alberi pericolanti. Anche su questo fronte il contributo del compost potrebbe essere rilevante, visto che se utilizzato su terreni in pendenza, dice Ferrini, “li stabilizza, favorendo una migliore radicazione delle piante e riducendo così il rischio di frane e il crollo di arbusti“.
Benefici a 360 gradi, insomma. Eppure, oltre l‘80% dei circa 2 milioni di tonnellate di compost prodotti ogni anno dagli impianti di recupero dei rifiuti organici attivi sul territorio nazionale finisce direttamente in agricoltura. Una parte marginale viene utilizzata nella produzione di terricci. Poco, quasi nulla, è utilizzato nella manutenzione del verde cittadino. Disinformazione e preconcetti legati all’utilizzo di materia ricavata dal recupero dei rifiuti sono tra gli ostacoli principali. Fino a generare autentici paradossi. “Molti comprano il terriccio al garden center e non sanno che gran parte di quel terriccio è compost“, spiega Ferrini, secondo cui “mancano adeguate campagne di informazione, ma anche di formazione per chi gestisce il verde pubblico”.
Disinformazione e preconcetti, a loro volta, condizionano le scelte degli uffici tecnici degli enti locali, conducendoli a non rispettare la normativa di riferimento. Già dal 2009, infatti, i Criteri Ambientali Minimi (CAM) per le modalità di gestione del verde urbano, obbligatori in ogni appalto pubblico, vincolano gli amministratori locali a premiare l’utilizzo fertilizzati naturali, tra cui il compost. Tuttavia, a più di quindici anni dalla loro emanazione, i CAM stentano a trovare un’applicazione coerente, anche alla luce dell’assenza di un quadro sanzionatorio. “Alcuni bandi presentano specifiche molto stringenti – spiega Ferrini – altri invece sono molto generici e non obbligano i fornitori a utilizzare compost di un particolare tipo. I Comuni preferiscono affidarsi ad altre modalità di gestione, come l’acquisto di terriccio vegetale o agrario, o addirittura l’uso di fertilizzanti di sintesi, che sono tutt’altro che in linea con un’idea di gestione sostenibile del territorio”. “C’è anche un tema legato all’estetica – aggiunge il professore – che spesso continua a prevalere sulla funzionalità ecologica. Molte città privilegiano interventi che restituiscano risultati visibili e immediati, piuttosto che lavorare per garantire la salute di medio lungo termine degli spazi verdi”. Scelte miopi non solo sul piano ambientale ma anche su quello economico, visto che un terreno sano riduce sensibilmente i costi di manutenzione connessi.
Sempre in tema di costi, resta il problema della disomogeneità del sistema di gestione dei rifiuti organici “che è abbastanza frammentato sul territorio – prosegue Ferrini – visto che in alcune aree la raccolta differenziata dell’umido non è sufficientemente diffusa o non è del tutto organizzata, ostacolando la produzione di compost“. Nelle aree meno servite da impianti di trattamento di prossimità, inoltre “c’è un’alta incidenza dei costi di trasporto, soprattutto nelle grandi città, dove la logistica è più complessa e dove a mio avviso servirebbe una migliore rete di coordinamento“. Barriere che da un lato impediscono un’inversione di rotta ai gestori del verde pubblico e ai privati e, dall’altro, costringono i compostatori a mandare in agricoltura quasi tutto il compost prodotto, a prezzi bassissimi e talvolta a titolo gratuito pur di liberare le piazzole degli impianti. Che invece, con l’apertura di nuove fette di mercato nei servizi pubblici, potrebbero integrare le già magre tariffe di conferimento.
“Dal punto di vista tecnico penso che le città siano pronte” spiega il professore, ricordando le buone pratiche già messe in campo, “come il progetto ‘Forestami’ a Milano o la collaborazione condotta dall’Università di Firenze con il Comune per sperimentare l’impiego del compost nel verde urbano”. Per disseminare i migliori esempi sull’intero territorio nazionale, tuttavia, “serve soprattutto un upgrade culturale”, dice. Partendo da una nuova e più capillare attività di informazione “che vada oltre il semplice atto della raccolta differenziata”, chiarisce, e che entri più a fondo su temi fin qui affrontati poco, su tutti la qualità della raccolta.
Come per ogni buon prodotto finale, anche nel caso del compost la qualità della materia prima è tutto. E nelle città italiane la frazione organica dei rifiuti differenziati conferita agli impianti di compostaggio sta peggiorando. In base agli studi condotti dal CIC, nel 2024 le frazioni estranee costituivano circa il 7,1% della raccolta dell’organico e i costi crescenti per il loro smaltimento minano la sostenibilità economica degli impianti di trattamento. Senza impianti, va da sé, non c’è compost. “C’è bisogno di un’informazione chiara e mirata – aggiunge Ferrini – che abbia un impatto emotivo forte, mostrando, ad esempio, le conseguenze di una raccolta differenziata scorretta e come. invece. il compost ottenuto da una raccolta differenziata corretta possa migliorare non solo la qualità del verde urbano ma anche dei terreni agricoli che producono il nostro cibo”.