Italia indietro rispetto ai target vincolanti dell’UE sul riciclo dei veicoli a fine vita. In vista della revisione della direttiva europea, l’associazione dei riciclatori lancia l’allarme: “Applicare il regime di responsabilità estesa del produttore per scongiurare la procedura d’infrazione”
Senza rivedere la governance di settore e le logiche di remunerazione dei costi di trattamento la filiera del recupero dei veicoli a fine vita non raggiungerà i target vincolanti fissati dall’Unione Europea, scivolando inesorabilmente verso l’apertura di una nuova procedura d’infrazione. A quasi vent’anni dall’entrata in vigore della disciplina europea, recepita nel nostro ordinamento nel 2003, e alle soglie della sua revisione, annunciata per fine anno, i riciclatori di auto tornano a lanciare l’allarme. “L’Italia non è mai riuscita a centrare gli obiettivi minimi individuati dall’UE – spiega il presidente di Aira Stefano Leoni – per cui da un giorno all’altro potrebbe vedere aperto un procedimento ai propri danni”.
A partire dal 2015 il 95% in peso delle automobili giunte ogni anno a fine vita nei Paesi dell’Unione Europea dev’essere recuperato, per almeno l’85% nella forma di pezzi di ricambio da riusare o di materiali da avviare a riciclo, mentre tutto il resto può essere trasformato in energia, lasciando solo un residuo 5% allo smaltimento in discarica. L’Italia dal canto suo già dal 2008 gravita intorno al target dell’85% di riciclo e riuso. Nel 2020, secondo Ispra, ci siamo fermati all’84,7%, più o meno come l’anno precedente e quello prima ancora. Una situazione di stallo che risente fortemente dell’andamento delle quotazioni di mercato per i pezzi di ricambio e i materiali riciclati, principalmente metalli, che rappresentano più del 70% in peso delle carcasse rottamate.
“La disciplina fu costruita intorno alla logica ottimistica secondo cui il mercato avrebbe remunerato interamente i costi di trattamento dei veicoli fuori uso – chiarisce Leoni – logica figlia di un lungo periodo di prezzi vantaggiosi. Poi dal 2007 in avanti le varie crisi del mercato globale hanno fatto crollare i valori mettendo in difficoltà l’intera filiera”. Con molte imprese costrette a chiudere e altre che, appese a margini risicati se non inesistenti, non riescono a mettere in campo gli investimenti che servono per migliorare le performance di riciclo e tenere il passo dell’evoluzione nel settore automotive, che corre sempre più spedito sulla via dell’elettrificazione. “Siamo all’alba di una rivoluzione – dice Leoni – il problema è che se sul fronte della produzione l’innovazione è stata sostenuta con generosi finanziamenti, nella filiera del recupero questo non è avvenuto”.
Insomma, nel prossimo futuro le cose potrebbero mettersi anche peggio, visto che l’addio al motore endotermico determinerà una radicale trasformazione nella composizione dei veicoli, con quote di componenti in plastica che andranno via via a sostituire quelle in metallo, proprio la frazione che oggi l’Italia recupera di più e meglio. Secondo Ispra, nell’anno più buio della pandemia la filiera ha trattato oltre un milione 200mila tonnellate di automobili dismesse, gestite in 1417 impianti di autodemolizione, 87 impianti di rottamazione e 28 impianti di frantumazione, l’anello finale della catena, specializzato principalmente nel recupero di rottame metallico, che nel 2020 ha garantito il riciclo di oltre 970mila tonnellate di rifiuti. Numeri che non bastano a raggiungere il target di riciclo e riuso né tanto meno quello del 95% di recupero complessivo.
Se il riciclo non cresce, infatti, il recupero energetico resta fermo al palo. Questo soprattutto per le difficoltà a trovare un adeguato circuito di valorizzazione per il residuo della frantumazione, il cosiddetto car fluff, un mix eterogeneo di materiali a basso valore aggiunto come gomme e tessuti. L’elevato potere calorifico ne farebbe in teoria un perfetto combustibile da rifiuto, ma i pochi spazi disponibili negli impianti di recupero energetico e le alte tariffe di conferimento rendono di fatto impercorribile questa strada. “Il Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti, approvato di recente dal Ministero della Transizione Ecologica – osserva Leoni – ha chiarito che servono impianti di recupero energetico per chiudere il ciclo di trattamento dei veicoli a fine vita, ma ad oggi non ce ne sono abbastanza e le tariffe di conferimento non sono sostenibili”. Tariffe che per il car fluff arrivano anche a 300 euro la tonnellata, spingendo i gestori degli impianti di frantumazione, che devono sobbarcarsi l’intero costo di trattamento di questa frazione, a trovare soluzioni più economiche. Leggasi discarica, dove nel 2020 sono finite quasi tutte le oltre 183mila tonnellate di fluff generate dagli impianti di frantumazione. E con loro buona parte dei dieci punti che ancora mancano per centrare l’obiettivo dell’UE.
Il grande tema, insomma, è quello dei costi. Come rendere economicamente sostenibili le attività svolte lungo l’intera filiera, bilanciando i saliscendi del mercato dei materiali riciclati e compensando le alte tariffe di recupero energetico? “Serve un modello di governance che tenga conto del regime al quale la filiera è sottoposta a livello europeo – spiega Leoni – quello della responsabilità estesa del produttore”. Che attribuisce al produttore di un bene la responsabilità, anche economica, di garantire che una volta divenuto rifiuto quel bene venga gestito secondo la gerarchia europea. Ovvero privilegiando in ordine il riuso, il riciclo e il recupero. Regime che nella filiera italiana dell’automotive, però, resta sostanzialmente inapplicato. E invece, dice il presidente di Aira, “chi immette sul mercato automobili dovrebbe anche garantire che la filiera sia in grado di funzionare correttamente, ammortizzando i contraccolpi del mercato”. Ovvero intervenendo a compensare i costi di trattamento, recupero energetico del fluff incluso, qualora non fosse possibile coprirli con quanto incassato dalla vendita dei materiali recuperati con la demolizione e la frantumazione. Una sorta di “meccanismo di assistenza”, dice Leoni, senza il quale l’apertura di una nuova procedura d’infrazione diventa ogni giorno più probabile.
“È il momento giusto per sollecitare l’attenzione sul tema – chiarisce Leoni – visto che entro l’ultimo quadrimestre dell’anno la Commissione Europea presenterà la propria proposta di revisione della direttiva”. Per portare i propri appelli all’attenzione dei decisori politici, martedì prossimo Aira presenterà i dati di uno studio realizzato in collaborazione con la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. Con la speranza che possano contribuire a definire la piattaforma italiana per discutere con Bruxelles la stesura definitiva della riforma. “Il governo fin qui non si è mosso – spiega Leoni – e non sappiamo ancora quale sia la posizione ufficiale dell’Italia rispetto agli interventi annunciati dalla Commissione. Serve aprire un tavolo con gli stakeholder, che possono dare un sostegno fondamentale nelle trattative con la Commissione”.