Nel 2019 l’UE ha esportato 1,7 milioni di tonnellate di tessili usati, destinati principalmente al mercato di seconda mano in Asia e Africa. Almeno sulla carta, visto che non abbiamo informazioni di dettaglio sui flussi, scrive l’agenzia europea per l’ambiente, e che secondo stime, sul totale spedito nel continente africano solo il 60% sarebbe effettivamente riutilizzato
È un destino “estremamente incerto” quello cui vanno incontro ogni anno i quasi due milioni di tonnellate di tessili usati che l’UE esporta verso paesi terzi, principalmente in Asia e Africa. Sulla carta dai porti europei partono container stipati di prodotti di seconda mano diretti principalmente ai mercati del riuso. In realtà dietro questo flusso, i cui volumi sono triplicati negli ultimi venti anni, potrebbero nascondersi scenari di gran lunga meno sostenibili, scrive in un briefing l’European Environment Agency. Dei carichi inviati nel continente africano solo il 60% sarebbe effettivamente riutilizzato, mentre sul destino dei flussi verso l’Asia non esistono informazioni di dettaglio. Le zone d’ombra, insomma, sono ancora tante. “Esistono poche ricerche o informazioni sull’effettivo tasso di riutilizzo nei paesi riceventi, sulla quota di tessuti usati che finiscono come rifiuti, sugli specifici sistemi di gestione dei rifiuti e sulla loro capacità di gestire i tessuti usati che non possono essere riutilizzati in modo sostenibile”. E che con ogni probabilità finiscono per essere indirizzati a trattamenti di riciclo informale e smaltimenti in discariche più o meno legali.
Se una recente indagine dell’EEA ha sottolineato come negli ultimi anni i volumi di rifiuti in plastica esportati verso paesi non UE siano letteralmente dimezzati, i dati sulle spedizioni di tessili usati dipingono un quadro diametralmente opposto: tra il 2000 e il 2019 la quantità è passata da poco più di 550mila tonnellate a quasi 1,7 milioni di tonnellate. “Pari a 3,8 kg pro capite – si legge nel briefing – ovvero circa il 25% dei 14,8 kg di abbigliamento, calzature e tessili per la casa consumati da ogni individuo nel 2020”. Significa che un quarto di quello che acquistiamo ogni anno, dopo l’uso, prende la via dell’export.
Complessivamente, Asia e Africa accolgono l’87% dei tessili esportati dall’UE, ma con differenze sostanziali nei mercati di destinazione. Negli ultimi venti anni infatti l’Asia ha visto crescere i flussi importati di circa sei volte, da 94 a 582mila tonnellate, tanto che i principali paesi importatori, come Pakistan (253mila), India (103mila) e Turchia (80mila) agiscono oggi da veri e propri hub internazionali per la selezione e il processamento delle balle provenienti dall’UE. I carichi, spiega l’agenzia, vengono lavorati per separare i prodotti riutilizzabili, da indirizzare al mercato asiatico o africano, dagli scarti non idonei, che vengono invece riciclati per produrne pezzame e imbottiture. Tutto il resto, spiega EEA, viene inviato in discarica. Tra i paesi africani, che nel 2019 hanno importato complessivamente 398mila tonnellate (erano 131mila nel 2000), le principali destinazioni restano invece Ghana (101mila tonnellate) e Tunisia (113mila), dove stando all’analisi di EEA i tessili usati vengono destinati soprattutto al mercato locale del riuso, mentre “ciò che non è idoneo al riutilizzo finisce per lo più in discariche a cielo aperto e in flussi di rifiuti informali”, tanto che “diversi paesi africani hanno discusso di vietare le importazioni di tessili usati”.
I numeri, insomma, nascondono una realtà molto più sfumata. Quanta parte di quello che esportiamo viene effettivamente avviata al riuso? In teoria, scrive l’EEA, stando ai codici CN (Combined Nomenclature) attribuiti alle spedizioni, la maggior parte dei flussi in uscita si classifica come 6309, ovvero tessili usati per il mercato di seconda mano, mentre solo una quota minore viene marcata come 6310, ovvero stracci e cascami non riutilizzabili. Il problema, scrive l’EEA, è che sebbene i rifiuti tessili siano nella lista europea dei rifiuti, non c’è un codice CN che li identifichi e le autorità di controllo tendono a qualificare come tali, e a sottoporre alla stringente di legge, quasi solo i lotti con codice 6310. Tutto questo nonostante spesso “una grande quantità di prodotti tessili usati venga esportata non differenziata, come i cosiddetti ‘originali’, ed è probabile che contenga sia articoli idonei che non idonei al riutilizzo”.
“C’è molta incertezza su quale quota di prodotti tessili possa essere riutilizzata e quale no – scrive EEA – poiché i codici della nomenclatura combinata (CN) per l’esportazione non chiariscono questa distinzione“. L’incertezza sul contenuto delle spedizioni talvolta è tale che anche “i grossisti – spiega EEA – non sempre hanno un’idea chiara di ciò che alla fine accade ai tessuti che esportano per essere riutilizzati in altre parti del mondo”. Quel che è certo è che nonostante i volumi in crescita, il valore delle spedizioni è andato diminuendo fino a toccare nel 2019 una media di 0,57 euro al kg. Segno che i tessili usati di maggior valore, la cosiddetta ‘crema’ che viene fuori dalla selezione delle raccolte, continua a rimanere sul mercato europeo del ‘second hand’, mentre a finire in Africa e Asia sono quasi esclusivamente i lotti di qualità inferiore. Secondo stime riportate dall’agenzia, sul totale spedito in Africa il 60% circa viene avviato a riuso, mentre la restante parte è smaltita più o meno legalmente in discarica. A finire in Asia, invece, sarebbero flussi di qualità ancora inferiore, sul cui destino, però, non sono al momento disponibili informazioni.
Il problema è che “se i tessili usati esportati dall’UE sono di qualità troppo bassa per essere riutilizzati, non vengono riutilizzati per molto tempo o non sostituiscono i nuovi acquisti di abbigliamento, potrebbero non sostituire realmente la nuova produzione o apportare benefici all’ambiente. Invece, le esportazioni porteranno solo a più tessili che finiscono come rifiuti“. Tanto più se nelle maglie larghe delle norme che dovrebbero regolare gli scambi tra l’UE e paesi terzi si infilano lotti di rifiuti veri e propri camuffati da beni di seconda mano. Un tema, ricorda l’EEA, che dovrà essere affrontato nell’ambito della riforma del regolamento europeo sulle spedizioni di rifiuti. La proposta presentata dalla Commissione, e attualmente allo studio delle istituzioni UE, subordina i trasferimenti di rifiuti verso paesi non-OCSE al rilascio, da parte del paese di destinazione, di un’attestazione della volontà di importare e della capacità di trattare i rifiuti in maniera sostenibile. “Per evitare che i flussi di rifiuti vengano falsamente etichettati come beni di seconda mano quando vengono esportati dall’UE, e in tal modo sfuggano al regime dei rifiuti – scrive l’agenzia – sulla base di un potere previsto nella proposta di riforma, la Commissione prenderà in considerazione l’elaborazione di criteri specifici a livello dell’UE per operare una distinzione tra rifiuti e prodotti tessili di seconda mano”.