È una condizione imprescindibile per assolvere agli obblighi di legge sulla responsabilità del produttore di rifiuti avviati a smaltimento intermedio, peccato però che nessuno sappia con esattezza come o cosa fare per rispettarla, né tanto meno quando farlo. Già, perché a 15 anni dalla sua prima comparsa, la cosiddetta “attestazione di avvenuto smaltimento” resta ancora oggi per tanti versi un mistero. Non un mistero recente, o quanto meno non del tutto, visto che la previsione di un “certificato di avvenuto smaltimento” era contenuta già nella formulazione originale del Testo Unico Ambientale, il decreto legislativo 152 del 2006, che all’articolo 188 lo indicava come condizione necessaria perché, in determinati casi, il produttore di rifiuti assolvesse alla responsabilità del loro corretto smaltimento. Quando il produttore, diceva il TUA, avvia i rifiuti ad operazioni “D13, D14 e D15”, che non sono di smaltimento vero e proprio ma solo di raggruppamento, cernita, condizionamento o deposito preliminari, la sua responsabilità non si esclude fino alla ricezione, accanto alla quarta copia del formulario di identificazione dei rifiuti, di un “certificato di avvenuto smaltimento” rilasciato dal “titolare dell’impianto” che abbia poi effettuato operazioni “da D1 a D12”, ovvero operazioni di smaltimento vere e proprie.
Lo stesso articolo 188 però rinviava l’attuazione della misura a un decreto ad hoc del Ministero dell’Ambiente che, come spesso accade in questi casi, non ha mai visto la luce. Poi, nel 2010, una ulteriore modifica al TUA per fare spazio al nuovo sistema di tracciabilità, il Sistri, scomparso nel 2018 senza essere mai entrato in funzione, ne aveva fatto perdere le tracce per un decennio circa. Fino allo scorso ottobre, quando il decreto legislativo 116 del 2020 ha rimodificato il Testo Unico, resuscitando il “certificato”, trasformandolo in “attestazione” e, soprattutto, facendolo entrare pienamente in vigore. Senza però che nel frattempo fossero arrivate le famose modalità di attuazione, anzi eliminando dal testo dell’articolo 188 ogni riferimento al decreto ministeriale e sostituendo al “titolare dell’impianto che effettua le operazioni di cui ai punti da D1 a D12” il generico “titolare dell’impianto”. «Insomma – spiega Tiziana Cefis, consulente ambientale per TeA Consulting – la consegna dell’attestazione al produttore adesso è obbligatoria a norma di legge, ma non si sa come debba essere compilata. La norma si limita a prescrivere che debba contenere “almeno, i dati dell’impianto e del titolare, la quantità dei rifiuti trattati e la tipologia di operazione di smaltimento effettuata” e che la misura è da considerarsi transitoria, nelle more dell’entrata in funzione del nuovo sistema di tracciabilità dei rifiuti»..
La necessità di prevenire condotte illecite garantendo il tracciamento del percorso dei rifiuti, al momento assolta dal sistema dei formulari di identificazione dei rifiuti e dai registri di carico e scarico, si scontra però con l’impossibilità operativa. «La norma – chiarisce il direttore di Fise Assoambiente Elisabetta Perrotta – pur nel condiviso intento di declinare le ipotesi di esclusione delle responsabilità del primo attore della filiera della gestione dei rifiuti (il produttore), purtroppo non identifica chiaramente il soggetto tenuto al rilascio dell’attestazione e, dal momento che essa è già vigente, sta dando luogo a continue criticità operative e difformi interpretazioni a livello locale». Ma c’è di più. «Non dobbiamo sottovalutare – aggiunge Tiziana Cefis – che l’attestazione va resa ai sensi del DPR 445 del 2000, il Testo Unico sulla documentazione amministrativa: dichiarare il falso in un’attestazione può costare molto caro alle aziende». E visto che la disciplina attuativa di riferimento non è mai stata adottata, e che quindi nessuno può stabilire con certezza cosa sia vero e cosa invece falso, gli operatori coinvolti si ritrovano esposti al rischio costante di vedersi comminate salate sanzioni nel caso in cui la loro lettura della normativa non coincida con quella degli enti deputati al controllo.
Anche perché le criticità operative non sono legate solo all’indeterminatezza della norma, ma anche alla sua stessa “ratio”. Ricordate il riferimento alle operazioni “D13, D14 e D15” presente nel decreto legislativo 152 del 2006? Ecco, quei codici si riferiscono a impianti che effettuano le cosiddette operazioni intermedie di smaltimento, ovvero lavorazioni finalizzate a rendere più efficiente il trasporto dei rifiuti al trattamento successivo. «Ad esempio, volendo semplificare – chiarisce Tiziana Cefis – mettendo insieme flussi di rifiuti uguali per qualità ma di produttori diversi, nei limiti di quanto previsto dalle autorizzazioni rilasciate all’impianto. Rifiuti che poi successivamente l’impianto provvede ad avviare a operazioni di smaltimento, non necessariamente tutti in una volta e tutti alla stessa destinazione». Cosa che rende «materialmente impossibile nella maggior parte dei casi – spiega Assoambiente – l’identificazione e la distinzione successiva dei flussi di rifiuti generati da ogni singolo produttore iniziale, una volta che essi sono stati trattati nell’impianto». Come potrebbe infatti l’impianto di destinazione finale, una volta ricevuti quei rifiuti “pretrattati”, compilare una “attestazione” da consegnare ai produttori iniziali dichiarando di aver smaltito esattamente gli stessi rifiuti da loro avviati a trattamento preliminare? Anche a questa domanda oggi ognuno risponde come può, con tutti i rischi che questo comporta.
Ecco perché Assoambiente aveva scritto già lo scorso ottobre al Ministero dell’Ambiente (oggi Ministero della Transizione ecologica) chiedendo «l’abrogazione della disposizione stante l’indeterminatezza e le criticità di applicazione della stessa» o almeno, spiega Elisabetta Perrotta «un intervento di chiarimento che consenta di superare il disorientamento che questa norma sta creando tra i vari soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti e di avviare condotte univoche in materia». L’ennesima richiesta di chiarimento sugli effetti di un decreto legislativo, il 116 del 2020, adottato per allineare l’Italia alle ambiziose disposizioni europee sull’economia circolare e che invece, fin qui, sembra capace di generare solo incertezza e confusione.