L’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili sta mandando in tilt il mercato del ‘second hand’, con costi in aumento e ricavi in picchiata. “Nessuna azienda può permettersi di spendere più di quello che incassa – spiega a Ricicla.tv il presidente di UNIRAU Andrea Fluttero – il rischio è che si blocchi il sistema o che aumentino le gestioni non a norma”
Dal 1 gennaio 2025 la raccolta differenziata dei rifiuti tessili è obbligatoria in tutta Europa, in Italia lo è già dal 2022 ma “se inseguiamo l’ingenua prospettiva di spingerla rischiamo di trovarci con enormi quantità di materiali stipate nei capannoni o abbandonate nelle campagne da soggetti senza scrupoli”. Altro che economia circolare. Lo scenario da brividi descritto da Andrea Fluttero, presidente di UNIRAU, l’associazione nazionale dei recuperatori di abiti usati, ricorda un po’ quello che nel 2018 seguì lo stop della Cina all’importazione di rifiuti, quando depositi zeppi di ogni tipo di plastica presero a spuntare come funghi a ogni altezza dello Stivale. Stoccaggi più o meno leciti che, a decine, finirono consumati dalle fiamme in circostanze quasi sempre sospette.
“In quel caso si era bloccato da un giorno all’altro il principale mercato di sbocco. Il rischio che corriamo oggi invece è quello di dare il colpo di grazia definitivo a un mercato in difficoltà” chiarisce Fluttero, che nei giorni scorsi con un post su LinkedIn ha fatto esattamente quello che non ti aspetteresti dal presidente di un’associazione di recuperatori: invitare cittadini e Comuni a non fare la raccolta differenziata. O meglio, ad abbandonare la convinzione che tanto poi tutto quello che viene raccolto trova una nuova vita. Perché non è così.
“Bisogna ricordare che il sistema dei rifiuti tessili non è basato sul riciclo, che è complessissimo e al momento in Italia interessa solo materiali specifici come lana vergine o cashmere – chiarisce Fluttero – ma sulla preparazione per il riutilizzo” destinata al mercato internazionale del ‘second hand’. Il problema è che mentre prima il mercato era libero, e quindi se c’era meno domanda di prodotti usati si riduceva la raccolta, togliendo banalmente i cassonetti, con l’obbligo di differenziata invece è tutto più rigido e gli sbocchi tendono a saturarsi”. Anche perché su alcuni dei principali mercati di riferimento per il ‘second hand’ europeo, quelli del nord e centro Africa, “l’ultra fast fashion cinese arriva ormai coi prezzi del nuovo più bassi del nostro usato”. Per una “normalissima legge della domanda e dell’offerta, l’aumento dei quantitativi intercettati a fronte di una domanda calante sta facendo scendere il prezzo delle raccolte” e, di conseguenza, i margini di guadagno per chi seleziona e poi rimette sul mercato tessile e abbigliamento.
Tuttavia, non è solo il ‘quanto’ si raccoglie a minare i fondamentali economici del sistema, ma anche il ‘cosa’. “L’aumento del fast fashion, quindi dei prodotti di scarsa qualità nelle raccolte, ha ridotto la quantità di prodotti da preparare per il riuso” e ha fatto aumentare i costi per la gestione di tutto quello che non è riutilizzabile. Quindi sia i costi di smaltimento veri e propri, sia i costi per l’esternalizzazione del riciclo verso paesi come India e Pakistan. Una tempesta perfetta. “Già in questi mesi le raccolte cominciano a non essere più sostenibili”, dice Fluttero. Da qui l’appello a non aumentare la differenziata senza prima aver creato le condizioni necessarie a garantire la sopravvivenza degli operatori. “Perché nessuna azienda o cooperativa può permettersi per troppi mesi di spendere più di quello che incassa da quello che ha raccolto. Il rischio diversamente è che si blocchi il sistema – spiega – o che aumentino le gestioni non a norma”.
È anche per riequilibrare le diseconomie del sistema che l’Ue obbligherà gli Stati membri a istituire sistemi di responsabilità estesa del produttore (o EPR), in virtù dei quali le case di abbigliamento dovranno versare per ogni capo immesso a mercato un eco-contributo necessario a garantire la corretta gestione del fine vita. Ma l’introduzione dei regimi, sancita dall’intesa raggiunta tra Consiglio e Parlamento sulla revisione della direttiva quadro rifiuti, ha tempi lunghi. “I primi EPR arriveranno tra uno, due o tre anni – chiarisce Fluttero – e quindi dobbiamo capire come fare nel frattempo per evitare il collasso del sistema”.
L’invito a non esasperare la raccolta differenziata è un primo passo per abbassare i costi a carico degli operatori, ma da solo non basterà. “Stiamo preparando uno studio sui costi della raccolta da discutere con ANCI e con le associazioni dei gestori del servizio pubblico UTILITALIA e Assoambiente – dice Fluttero – la nostra proposta è quella di eliminare i contributi che, in molti casi, i raccoglitori versano ai Comuni per l’installazione dei cassonetti e, se questo non dovesse bastare, passare ad affidare le concessioni sulla base di criteri nuovi“. Superando quindi le attuali procedure per l’affidamento del servizio, nelle quali sono i raccoglitori a offrire soldi alle stazioni appaltanti per aggiudicarselo, per passare a gare al ribasso nelle quali siano i raccoglitori a ricevere un contributo per effettuare la raccolta. “Ricevendo come pagamento il materiale differenziato più una quota integrativa, che poi sarà quella oggetto della della gara – spiega il presidente di UNIRAU – chi chiederà meno si aggiudicherà il servizio”.
Misure d’emergenza per salvare “cooperative e aziende che da anni operano nel settore della raccolta della selezione e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani, con molti posti di lavoro – dice – se non dovessimo consentire loro di sopravvivere, tra un anno o due quando ci saranno i sistemi di EPR toccherà ricostruire tutto da zero“.