L’Autorità Nazionale Antcorruzione boccia una gara per il trattamento della forsu che, in nome del principio di prossimità, era stata limitata a operatori “entro una distanza massima di 10 Km”. Una clausola “illegittima e limitativa della concorrenza”, scrive l’ANAC, che sul punto richiama il Consiglio di Stato e la sua “illuminante interpretazione” del rapporto tra prossimità e concorrenza sul mercato dei rifiuti
Dopo il terremoto scatenato dalle sentenze della giustizia amministrativa che hanno demolito il sistema degli ‘impianti minimi’ di ARERA, il rapporto tra libera circolazione dei rifiuti avviati a recupero e principio di prossimità arriva anche sul tavolo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. In una delibera adottata nei giorni scorsi l’ANAC ha infatti chiarito che “sulla base dei più recenti approdi giurisprudenziali, il principio concorrenziale sembra prevalere rispetto al principio di prossimità ambientale“. E che la libera circolazione dei rifiuti urbani recuperabili, garantita dal Testo Unico Ambientale, non può essere compressa o limitata entro i confini di uno specifico ambito territoriale. Soprattutto se per motivi di natura esclusivamente economica.
Oggetto del pronunciamento del Consiglio nazionale dell’ANAC il capitolato di una gara d’appalto bandita da una utility lombarda per l’affidamento di due lotti da 72mila tonnellate complessive di frazione organica da raccolta differenziata, viziato, secondo l’Autorità, da un requisito territoriale d’accesso alla procedura basato sulla disponibilità, da parte della impresa destinataria, di un impianto di trattamento “ubicato entro una distanza massima di 10 Km”. Una clausola “illegittima e limitativa della concorrenza”, scrive l’ANAC, che per questo ha chiesto l’annullamento della procedura (che nel frattempo era stata aggiudicata, seppur provvisoriamente).
Sia per la giurisprudenza che per il nuovo codice degli appalti, ricorda l’Autorità nella sua delibera, le cosiddette ‘clausole territoriali’ possono essere applicate solo come requisito premiale, volto “a promuovere, per le prestazioni dipendenti dal principio di prossimità per la loro efficiente gestione, l’affidamento ad operatori economici con sede operativa nell’ambito territoriale di riferimento”, e sempre in accordo “con il diritto dell’Unione europea e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità”. Mai, quindi, con la funzione di escludere a priori eventuali operatori, come invece previsto dal capitolato della utility lombarda.
Sul punto l’ANAC richiama proprio una della sentenze del Consiglio di Stato sul caso ‘impianti minimi’ e la “illuminante interpretazione” del rapporto tra principio di prossimità e concorrenza data in quell’occasione dai giudici amministrativi, secondo cui “pur essendo, a sua volta, teleologicamente connesso alla tutela ambientale”, il primo “non comprime in maniera assoluta” la seconda, ma nell’ambito di un appalto può tutt’al più permettere di valorizzare “quelle offerte che ne garantiscono maggiormente il rispetto”.
Il problema vero, chiarisce l’Autorità, è che l’interpretazione del principio di prossimità data dalla utility lombarda appare dettata, più che da interessi di carattere ambientale, da logiche di ben altra natura. “A quanto riferito dalla stazione appaltante – si legge infatti nel provvedimento – già in sede di analisi preliminare delle condizioni di mercato era emersa l’esistenza di soli due impianti nel territorio di riferimento”. Che poi sono stati gli unici a partecipare alla gara e gli unici, naturalmente, ad aggiudicarsela. Il sospetto dell’ANAC, insomma, è che la clausola territoriale sia stata inserita non tanto per garantire la ‘sostenibilità’ dell’affidamento quanto per “limitare la concorrenza ai suddetti operatori economici”. Ovvero per cucirgli addosso l’appalto, “con evidenti risvolti negativi anche sul piano dell’economicità“. Per questo, oltre che sul piano astratto, puramente giuridico, la procedura, chiarisce l’Autorità, appare illegittima anche sul piano concreto.