Circa il 60% dei materiali non compostabili che finiscono nella raccolta differenziata dell’umido è costituito da plastica, ma fatte le dovute proporzioni si tratta del 3% della frazione organica di rsu raccolti in Italia. Frazione che ha, infatti, un tasso di purezza del 95%. A rivelarlo è uno degli studi presentati questa mattina a Milano presso la Fondazione Cariplo a coronamento del progetto di ricerca e divulgazione sulla corretta gestione ambientale di plastiche e bioplastiche sottoscritto tra Assobioplastiche, Corepla, Conai e CIC. Un dato solo apparentemente positivo: questo monitoraggio, effettuato dal Consorzio Italiano Compostatori, ha di fatto svelato le abitudini ampiamente scorrette degli italiani in relazione all’utilizzo di sacchi e sacchetti per la raccolta della frazione organica: nonostante l’obbligo di raccolta con manufatti biodegradabili e compostabili – si legge nello studio – più del 43% dei sacchi utilizzati per contenere l’umido non è risultato compostabile. Il rimanente 57% è costituito sia da shopper che da sacchetti compostabili dedicati alla raccolta differenziata dei rifiuti organici.
Lo studio ha anche quantificato la quantità di plastica e di bioplastica che transita nel settore del compostaggio. Si stima che negli impianti dedicati alla produzione di compost ogni anno arrivino, al netto dell’umidità, circa 31.000 tonnellate di bioplastica contro le 73.500 tonnellate di plastica (imballaggi e non) che gli impianti devono opportunamente separare ed estrarre per produrre compost di qualità. «Oltre a costituire un costo per gli impianti – spiega Alessandro Canovai, presidente Cic – questi polimeri fossili generano un effetto di trascinamento e per toglierli servono tecnologie complesse».
Ai dati del Cic si affiancano quelli del Corepla che invece rovesciano il problema, riscontrando impurità nel ciclo di recupero degli imballaggi dovute ad un improprio smaltimento di bioplastiche insieme alle plastiche “convenzionali”. Dal report emerge come soprattutto sacchetti e shopper bio finiscano in bidoni e cassonetti della plastica: i dati parlano di circa 7500 tonnellate pari allo 0,85% della raccolta. Numeri che sembrano irrisori, ma che acquistano spessore se, ribaltando la prospettiva, si valuta come questa quantità ammonti al 16% del totale degli imballaggi in plastica compostabili immessi a consumo.
I numeri delle bioplastiche sono in aumento, e proprio per questo dati apparentemente di limitata rilevanza devono essere affrontati ora per non degenerare in problemi più seri per la gestione del ciclo dei rifiuti nostrana. A dimostrarlo sono i dati di un terzo studio, questa volta a cura di Plastic Consult, secondo il quale il settore degli imballaggi in plastica compostabili è in netta crescita: 352 milioni di euro di fatturato nel 2016, 3930 addetti in 152 aziende. E potrebbe crescere ancora, aggiunge Marco Versari, presidente Assobioplastiche, «semplicemente togliendo la parte di prodotti che dicono di essere biodegradabili e non lo sono. Così si avvicinerebbe già al miliardo di euro di fatturato, aumentando i posti di lavoro, dal momento che ogni tonnellata di bioplastica significa 60 posti di lavoro nella filiera». Bioeconomia significa «comunicare e dialogare con i cittadini – continua Versari – la cui collaborazione è indispensabile per garantire il successo delle raccolte differenziate, leve fondamentali anche in funzione delle normative relative all’uso di materiali ecosostenibili e al consumo consapevole».