Dopo un periodo di crescita costante, dal 2020 l’economia circolare italiana ha rallentato: in calo gli investimenti e gli occupati, si legge nel rapporto ‘L’Italia che Ricicla’ curato da Ref per Assoambiente. Che lancia la proposta di una ‘Agenda 2030 per il riciclo’
La crisi pandemica ha rallentato la transizione circolare dell’Italia, che resta tra i paesi leader in Ue ma perde terreno in termini di prestazioni, investimenti e livelli occupazionali. È la fotografia scattata dal rapporto L’Italia che Ricicla 2024, curato da Ref per Assoambiente e presentato questa mattina a Roma, con un appello multifiliera per l’adozione di un’agenda al 2030 che rilanci la produzione nazionale di risorse riciclate e la loro sostituzione alle risorse vergini nei cicli industriali. Un antidoto alla dipendenza dalle importazioni dall’estero, oltre che un argine al sovrasfruttamento delle risorse naturali e una leva per la decarbonizzazione dei sistemi produttivi. Stando al rapporto, tuttavia, nel 2022 il nostro paese poteva vantare un tasso di circolarità del 18,7%, superiore alla media europea dell’11,5%, ma a differenza di quest’ultima, in lieve aumento, la capacità dell’Italia di sostituire materia riciclata alle risorse vergini nei nuovi prodotti è in calo dal 2020, con una contrazione dello 0,6% su base annua a fronte di un aumento del consumo di materia dell’1,6%.
“È un valore che si pone in controtendenza rispetto all’andamento dei maggiori paesi europei e che ci suggerisce che non stiamo facendo abbastanza per sostenere il riciclo” chiarisce Donato Berardi di Ref, curatore del rapporto, secondo cui “la ripresa economica post pandemica ha crucialmente trainato il maggiore utilizzo di materie vergini, mentre il riciclo è rimasto sottotono”. In un quadro europeo caratterizzato da politiche “che stanno fortemente rilanciando l’importanza del recupero di materia in tutte le sue declinazioni – aggiunge – i dati dicono che nel nostro paese è necessario investire di più, sia in termini di risorse che di riforme”.
Sul fronte delle risorse i dati messi in ordine da Ref restituiscono un quadro in chiaroscuro. Se il valore aggiunto del settore si attesta al 2,5% del PIL, al di sopra della media europea del 2,1% e delle altre maggiori economie europee, il dato sugli investimenti risulta invece cresciuto fino al 2019 per poi arrestarsi nel 2020 e nel 2021 e collocarsi oggi su un livello più basso rispetto alle principali economie europee: l’Italia, si legge nel rapporto, investe lo 0,7% del PIL nell’economia circolare, meno della media europea e meno soprattutto dei maggiori Paesi, Francia (0,8%) e Germania (0,9%) “che quindi sembrano disporre di un vantaggio competitivo rispetto al nostro Paese in termini di maggiore innovazione tecnologia e produttività conseguente”. Una frenata con ripercussioni anche sul piano occupazionale, con l’Italia che continua a detenere il primato per numero di occupati – circa 613 mila i lavoratori a tempo indeterminato nei settori del riciclo, riparazione, riutilizzo – ma perde oltre 30 mila posti di lavoro rispetto al 2020. Unica diminuzione tra le principali economie Ue.
In sostanza, scrive Ref, anche se l’Italia conserva posizioni d’eccellenza in diversi settori, a partire dalla filiera del riciclo dei metalli ferrosi (tasso di circolarità del 47%), i numeri dicono che dal 2021 la crescita economica non è stata accompagnata da uno sviluppo parallelo del settore dell’economia circolare. “Da qui la necessità di mettere in campo strumenti economici e fiscali che garantiscano un maggiore assorbimento dei prodotti da riciclo – spiega Berardi – ma che siano anche capaci di proteggere i mercati dalla forte fluttuazione dei valori delle materie prime seconde, che rappresenta il principale deterrente agli investimenti”. Anche perché nel 2023 l’Italia è risultata importatrice netta di materie prime seconde per circa 8 milioni di tonnellate, a testimonianza di un potenziale di crescita che potrebbe essere sfruttato dall’industria del riciclo nazionale. “È necessaria una strategia industriale che consideri la circolarità come un pilastro essenziale per la competitività e la sostenibilità del Paese – afferma Paolo Barberi, presidente della sezione UNICIRCULAR di Assoambiente – in particolare vanno rimosse le barriere regolatorie che rappresentano il vero freno alla decarbonizzazione del nostro sistema produttivo”.
Da qui l’appello per l’adozione di una ‘Agenda 2030 per il riciclo’, con proposte di policy sia a livello europeo che nazionale “per dare risposte concrete alle istanze degli operatori”, si legge nel rapporto. Un ventaglio di proposte che parte dal completamento del mercato unico del riciclo a livello europeo, nel solco tracciato da Mario Draghi nel suo report sulla competitività dell’industria Ue, da realizzare omogeneizzando i regolamenti end of waste nazionali, rimuovendo gli ostacoli burocratici alla circolazione dei rifiuti e delle materie secondarie e rafforzando la competitività dell’industria Ue del riciclo “liberandola da quei lacci che ancora oggi ne impediscono un pieno dispiegamento”. Serve poi mettere in campo strumenti economici incentivanti che riconoscano sul piano economico il contributo del riciclo alla decarbonizzazione, come le garanzie d’origine o i certificati del riciclo, questi ultimi modulati sulla base dei certificati bianchi per l’efficienza energetica.
Ma un vero piano d’azione per il rilancio del riciclo nazionale, si legge nel rapporto, non può non passare per una rivoluzione fiscale che parta dalla revisione della tassazione ambientale, che potrebbe liberare risorse da utilizzare a supporto del settore. Nell’anno 2023, il gettito delle tasse ambientali non destinato a finalità verdi si quantifica in 49.045 milioni di euro, si legge. Destinare appena l’1% di tali risorse al finanziamento di misure come IVA agevolata e del credito d’imposta, spiega il report, vorrebbe dire assicurare un sostegno annuo al riciclo di oltre 490 milioni di euro, a parità di saldi finanziari per le finanze pubbliche rendendo disponibili tra 2026 e 2030 circa 2,5 miliardi di euro. Più delle risorse dedicate dal PNRR agli investimenti in materia di gestione dei rifiuti e riciclo. Accanto a questo, si legge, occorre rafforzare le attività complementari al riciclo, come la raccolta e selezione dei rifiuti orientata alla qualità dei flussi e il recupero energetico delle frazioni non riciclabili.
Oltre agli incentivi, chiarisce tuttavia il rapporto, serve però soprattutto un vero e proprio “shock a livello normativo e amministrativo” che agevoli lo sviluppo del settore prendendo le mosse dall’ascolto degli operatori. In una fase di profonda trasformazione delle regole del gioco, sia a livello nazionale che europeo, spiega il rapporto, “l’elemento fondante è proprio un maggiore coinvolgimento dei portatori d’interesse industriali, così da evitare i cortocircuiti che hanno interessato, ad esempio, l’adozione del regolamento eow sui rifiuti da costruzione e demolizione”. “Il Ministero dell’Ambiente ha dimostrato volontà di apertura al confronto con gli operatori per risolvere i problemi ancora presenti nel decreto – chiarisce Paolo Barberi – siamo convinti che si possa andare avanti, così come promesso dal vice ministro Vannia Gava”.