Secondo uno studio della CNA solo il 30% delle PMI ha investito in economia circolare. Barbara Gatto: “Servono competenze e una nuova fiscalità green”
Se le energie rinnovabili sono la cura per la dipendenza dai combustibili fossili, gas e carbone russi su tutti, l’economia circolare è il vero antidoto contro la crisi delle materie prime. E più in generale, contro la dipendenza del nostro Paese dall’importazione di risorse dall’estero. Ma le imprese, soprattutto quelle medie e piccole, ancora non lo sanno. E se lo sanno, non trovano le competenze e gli strumenti fiscali che possano accompagnarle nella transizione. Secondo un’analisi effettuata da CNA in periodo pre-crisi, appena il 50% delle aziende su un campione composto per lo più da PMI “percepiva la strategicità del portare dentro la propria azienda le logiche dell’economia circolare” spiega Barbara Gatto, responsabile green economy della CNA. “Nonostante i risultati che ancora oggi il nostro Paese può vantare – dice – non siamo riusciti a trasferire in maniera diffusa la percezione del valore aggiunto rappresentato dall’operare secondo i principi dell’economia circolare”. Ovvero riducendo il consumo di risorse, sostituendo materiali da riciclo e sottoprodotti alle materie prime vergini, e mettendo sul mercato prodotti dalla vita più lunga e più facilmente riparabili o riciclabili.
E anche le imprese che li conoscono, faticano a calare i principi dell’economia circolare nella quotidiana pratica industriale. “La percentuale di imprese che risultava aver agito concretamente – dice – scendeva al 30%“. Quanto ai benefici percepiti, l’indagine ha fatto emergere come a fronte di una diffusa consapevolezza dei vantaggi collettivi, in termini di impatto sull’ambiente, la quasi totalità delle imprese registrasse una riduzione dei costi complessivi dell’attività mentre pochissimi erano i vantaggi in termini di mercato e fatturato. “Vuol dire che la domanda non è pronta a rispondere a questa trasformazione” spiega Gatto. Un 30% del campione “e non è un dato basso” osserva, ha addirittura dichiarato di non percepire benefici significativi. “Questo – aggiunge – ci dice che probabilmente c’è qualcosa che non va nella scelta del tipo di investimento che l’impresa decide di mettere in campo”. A far riflettere è anche la percentuale risicata di imprese che, a seguito di un investimento in economia circolare, ha scelto di misurare le proprie performance: appena il 10%. Pochissimo, nell’era della tassonomia e dei parametri ESG. “Ci avviamo alla rivoluzione della finanza sostenibile – commenta Gatto – e non possiamo immaginare che le PMI non abbiano strumenti per arrivare preparati a questa trasformazione”.
Ma chi deve dotare le imprese degli strumenti necessari a cavalcare la transizione? E soprattutto, di quali strumenti c’è bisogno? Sul piatto ci sono i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 2,1 miliardi di euro, di cui 600 milioni dedicati a progetti innovativi di economia circolare. “Bene, ma è poco – spiega Gatto – si è puntato sullo sviluppo infrastrutturale, ma noi abbiamo un sistema fatto di centinaia di migliaia di aziende che devono riconvertire il proprio modo di fare impresa. E su questo nel PNRR non c’è molto”. Serve investire di più, ma la risposta non può essere solo quella degli incentivi a pioggia. “Bisogna mettere in campo meccanismi di leva fiscale che favoriscano la transizione – spiega Gatto – ma al momento il tema della fiscalità green sembra scomparso dal dibattito“. Ma il tema vero resta quello delle competenze, e non solo quelle interne alle aziende. “Una piccola impresa non potrà mai permettersi un manager per l’economia circolare – dice – serve piuttosto una rete di soggetti che sia pronta ad accompagnarla”. Un esempio può essere quello dei ‘digital innovation hub’ nati nell’ambito del Piano industria 4.0. “Credo che un’esperienza come quella possa essere replicata – osserva Gatto – creando con le associazioni di categoria e un partenariato pubblico-privato una rete di supporto dedicata allo sviluppo dell’economia circolare nelle PMI”.