Direttiva acque reflue: così i depuratori diventeranno fabbriche verdi

di Luigi Palumbo 31/12/2024

Dai nuovi obiettivi di trattamento avanzato a quelli di autonomia energetica: arriva la rivoluzione della nuova direttiva sulle acque reflue. L’Italia, che sconta quattro procedure d’infrazione, è chiamata a un drastico cambio di passo. “Dobbiamo rincorrere, ma possiamo anche anticipare”, spiega a Ricicla.tv il professor Francesco Fatone


Decontaminazione spinta dei reflui, promozione del riutilizzo dell’acqua e del riciclo dei fanghi, neutralità energetica degli impianti di trattamento. Che da qui al 2045 dovranno trasformarsi in vere e proprie fabbriche verdi. È un’azione ad ampio raggio sui principali fronti della crisi ambientale – inquinamento, sovrasfruttamento delle risorse, cambiamento climatico – quella disegnata dalla riforma della direttiva quadro sulla depurazione, che entrerà ufficialmente in vigore dal primo gennaio di quest’anno (fatta eccezione per una serie di misure che partiranno solo dal 1 agosto 2027).

“Una direttiva dal livello di ambizione elevatissimo”, spiega a Ricicla.tv Francesco Fatone, professore all’Università Politecnica delle Marche, collaboratore del commissario di governo alla depurazione e uno dei massimi esperti nel panorama internazionale della ricerca su trattamento e recupero delle acque reflue. “Si va dalla inedita previsione di piani di gestione integrata delle acque, che metteranno per la prima volta assieme reflue e meteoriche, a una attenzione più puntuale agli scarichi diffusi, fino alle stringenti previsioni sulla qualità degli scarichi in termini di nutrienti e microinquinanti. Tutto questo – aggiunge – accoppiato con una ambizione enorme sul fronte della neutralità energetica e della decarbonizzazione”.

La direttiva dovrà essere recepita nei singoli ordinamenti nazionali entro il 31 luglio 2027, ma già da subito gli Stati membri dovranno lavorare per adeguare i propri sistemi di trattamento al nuovo regime, con un campo di applicazione esteso a tutti gli agglomerati urbani con abitanti equivalenti uguali o superiori a 1.000, rispetto agli attuali 2.000. Entro il 2035 gli Stati membri dovranno dotarsi di sistemi di collettamento e trattamento dei reflui anche nei nuovi agglomerati interessati, mentre deroghe saranno previste per gli Stati che abbiano fatto il loro ingresso nell’Unione dopo il 2004 o il 2006. Sempre entro il 2035 gli agglomerati urbani superiori a 1.000 abitanti dovranno dotarsi di trattamento secondario (per la rimozione della materia organica), mentre il trattamento terziario (rimozione di fosforo e azoto) e quello quaternario (microinquinanti) saranno obbligatori rispettivamente dal 2039 e dal 2045 per tutti gli agglomerati superiori ai 150 mila abitanti equivalenti e, dal 2045, per i soli agglomerati da 10 mila abitanti che scaricano in zone a rischio.

Secondo Utilitalia, per adeguare i sistemi di depurazione ai parametri sugli inquinanti emergenti previsti dalla nuova direttiva serviranno investimenti fino a 6,1 miliardi di euro e costi operativi fino a 800 milioni all’anno. Proprio per garantire sostegno finanziario all’installazione di tecnologie di trattamento quaternario, entro la fine del terzo anno dall’entrata in vigore della nuova direttiva – quindi entro la fine del 2028 – gli Stati membri dovranno assicurare l’istituzione di regimi di responsabilità estesa del produttore per l’industria cosmetica e farmaceutica, che dovranno contribuire almeno all’80% dei costi aggiuntivi. Per tracciare la presenza di inquinanti nei reflui, e misurare gli sforzi necessari a rimuoverli, la nuova direttiva chiede agli Stati membri di garantire un “rigoroso monitoraggio” della presenza, tra gli altri, di PFAS, microplastiche e antibiotici.

Nelle intenzioni del legislatore europeo il disinquinamento spinto delle acque reflue dovrà essere funzionale anche al loro riutilizzo. Anzi, “se si mettono a confronto gli standard di qualità per lo scarico con quelli per il riutilizzo – chiarisce Fatone – ci si rende conto che, paradossalmente, in alcuni casi le tecnologie per il riutilizzo sono meno avanzate. Ciò significa che diventerà una pratica fattibile anche per impianti oggi pensati per scaricare nei corpi d’acqua superficiali”. Gli Stati membri, chiarisce la direttiva, dovranno promuovere il riutilizzo delle acque reflue trattate “per tutti gli scopi appropriati”, a partire da quello agricolo, e “specialmente nelle zone soggette a stress idrico”.

Sempre in tema di circolarità, gli Stati membri dovranno incoraggiare il recupero di risorse dai fanghi da depurazione. Per il fosforo, che dal 2017 è incluso nella lista Ue delle materie prime critiche, entro il 2 gennaio 2028 la Commissione si riserva di valutare l’introduzione di target minimi di recupero. Nel frattempo “i singoli Stati dovranno fare valutazioni caso specifiche per quantificare il fosforo nei fanghi – chiarisce Fatone – nelle nostre acque reflue, ad esempio, c’è meno fosforo che in quelle dei paesi nord europei. Per questo occorrerà misurare la potenzialità di recupero e valutare gli investimenti e le priorità da darsi”.

Oltre che alla circolarità delle risorse la nuova direttiva europea guarda anche all’impronta carbonica dei trattamenti. Per mettere gli impianti di depurazione in linea con il percorso di decarbonizzazione al 2050, è fissato un inedito obiettivo di neutralità energetica: entro il 2045 tutti gli impianti di trattamento dovranno soddisfare il proprio fabbisogno con energia da fonti rinnovabili, prodotta sia dentro che fuori dal sito da parte o per conto dei proprietari o dei gestori dell’impianto di trattamento. “Quindi da un lato dovremo trattare meglio l’acqua, spendendo più energia – spiega Fatone – dall’altro recuperare più energia affinché tutto sia neutrale. È qualcosa su cui bisogna cominciare a lavorare da subito“.

Una rivoluzione che costringerà l’Italia a un drastico cambio di passo, visto che sull’inadeguato trattamento delle acque reflue il nostro Paese conta a suo carico ben quattro procedure europee d’infrazione, con quasi mille casi non a norma e sanzioni già pagate per più di 140 milioni di euro. Il conto, per di più, è già destinato a farsi più salato, visto che a marzo l’Italia è stata nuovamente deferita alla Corte di Giustizia Ue nell’ambito di una procedura per la quale era già stata condannata nel 2014. “Quindi da un lato ci troviamo a rincorrere – spiega Fatone – ma dall’altro abbiamo l’opportunità di anticipare. Per questo con la struttura del commissario di governo per la depurazione stiamo chiedendo ai soggetti responsabili degli interventi sui casi in infrazione di considerare già in sede progettuale soluzioni in linea con i target della nuova direttiva. Abbiamo già le regole per i prossimi 25-30 anni. Un approccio ben programmato, ben pianificato, ci consentirà di investire per recuperare i ritardi e, al tempo stesso, di evitare di dover investire nuove risorse tra una decina di anni. Questa direttiva – conclude – arriva per noi al momento opportuno”.

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