A oltre trent’anni dalla messa al bando dell’amianto in Italia, restano 40 milioni di tonnellate di materiali contaminati da rimuovere. Ma le bonifiche rallentano a causa della insufficiente dotazione di impianti, che gonfia i costi di gestione e alimenta fenomeni di illegalità. Nel frattempo, di amianto, l’Italia continua ad ammalarsi
Pochi impianti di stoccaggio e deposito e lacci burocratici allo sviluppo di soluzioni di trattamento innovative fanno lievitare i costi di bonifica dell’amianto in Italia. Ostacolando la guerra alla fibra killer, che a oltre trent’anni dalla messa fuori legge continua a far registrare centinaia di casi di nuove patologie asbesto correlate. È l’ennesimo bilancio allarmante della guerra all’amianto in Italia, una “guerra senza soldati”, come recita il titolo del digital talk andato in onda su Ricicla.tv e organizzato in collaborazione con SUM Symposium e con il think tank Tavolo di Roma. “Una vera e propria emergenza” ha detto Paolo Russo, presidente del Tavolo di Roma, le cui proporzioni stanno tutte nei numeri. A partire da quelli, agghiaccianti, delle patologie asbesto correlate, che crescono al ritmo di oltre 2mila mesoteliomi l’anno. “Secondo il registro nazionale dei mesoteliomi RENAM il settore edile è il principale responsabile dell’aumento dei casi – ha spiegato Margherita Ferrante, docente all’Università di Catania – ma sono in aumento anche i casi di esposizione generale della popolazione”. Complessivamente, secondo le ultime rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, dal bando del 1992 sono oltre 4mila 200 le vittime del contatto con fibre di asbesto.
Un bilancio, quello delle patologie legate all’esposizione all’asbesto, che va aggravandosi mentre le operazioni di rimozione segnano il passo. Secondo stime dello Sportello Amianto Nazionale ne resterebbero da rimuovere almeno 40 milioni di tonnellate, rappresentate principalmente da materiali da costruzione contaminati, mentre secondo l’ultimo rapporto ISPRA sui rifiuti speciali, nel 2021 le bonifiche hanno generato 339mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto, peraltro in calo, rispetto al 2020, di 47mila tonnellate. Un rallentamento legato anche alla ridotta capacità di trattamento sul territorio nazionale. “Al momento di fatto non abbiamo alternativa allo smaltimento nel terreno in impianti controllati – ha chiarito Raffaello Cossu, professore all’università di Padova – il problema è che in Italia ne abbiamo 18 ma concentrati solo in alcune regioni. Mancano completamente in Veneto, Abruzzo, Lazio, Calabria o Sicilia, per citarne solo alcune”. E nei territori che non hanno impianti la realizzazione di nuove infrastrutture, come quasi sempre accade, è osteggiata dalle comunità locali. Ostilità da superare anche reimpostando la comunicazione sui binari della trasparenza e della oggettività scientifica. “Bisogna far comprendere che un deposito di amianto è profondamente diverso da una discarica di rifiuti urbani – ha detto Cossu – per esempio in termini di presenza di contaminanti o inquinanti nel percolato, che nel caso dell’amianto sono assenti. Sono dell’idea che si debba passare dal concetto di discarica a quello di ‘sink’, ovvero un deposito di materiali”.
Oltre che distribuiti in maniera non omogenea sul territorio nazionale, gli impianti di trattamento attivi hanno capacità tutt’altro che commisurata alle dimensioni della sfida. Al 31 dicembre 2021, riporta l’istituto, la capacità residua complessivamente autorizzata era di appena un milione di tonnellate. Un quarantesimo circa di quella che servirebbe. Per questo, ha chiarito Cossu, “molti rifiuti vengono addirittura mandati all’estero. Dalla Sicilia, ad esempio, i materiali rimossi finiscono addirittura in Germania”. A prezzi esorbitanti, che spianano la strada al malaffare. “Quando i costi di smaltimento crescono c’è una virata netta verso le filiere criminali“, ha detto Paolo Russo, già presidente della commissione parlamentare sulle ecomafie. Ed è anche per questo che oltre a disincentivare le operazioni di rimozione, la carenza di impianti “ha come contropartita la nascita di discariche abusive sull’intero territorio nazionale”, ha chiarito Cossu.
Consapevole dell’insufficiente dotazione di impianti – e dei suoi impatti sui costi di trattamento, sul ritmo delle bonifiche, sui fenomeni di illegalità e, non da ultimo, sulla salute dei cittadini – nel Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti, la riforma del PNRR approvata nel 2022, il Ministero dell’Ambiente aveva previsto che entro il 31 dicembre 2023 le Regioni aggiornassero i piani di gestione dei rifiuti urbani dotandosi di soluzioni per trattare l’amianto in sicurezza entro i propri confini, definendo il fabbisogno di smaltimento, quindi individuando nuove discariche, e quello di trattamento “anche sulla base della presenza di eventuali impianti di inertizzazione”. Ovvero impianti innovativi che tramite processi termici o termochimici portano i materiali contaminati ad altissime temperature, fondendo le fibre fino a renderle inerti. E quindi compatibili anche con altri usi, soprattutto in edilizia. “Tecnologie che al momento sono solo al livello di impianti pilota, e solo in Francia, Inghilterra e Olanda“, come ha spiegato il professor Cossu, ma che nel prossimo futuro potrebbero contribuire anche in Italia a ridurre la necessità di creare nuovi siti di smaltimento. In Francia, ad esempio “già oggi le scorie prodotte dall’inertizzazione dei manufatti contenenti amianto vengono utilizzate nelle massicciate ferroviarie”, ha spiegato il presidente di Assoamianto Sergio Clarelli.
Pur comparendo nel Programma Nazionale, e prima ancora in un decreto del Ministero dell’Ambiente che nel 2004 ha inquadrato i possibili trattamenti per i rifiuti contenenti amianto, “c’è difficoltà a installare questi impianti sul territorio visto che ancora oggi mancano le norme attuative – ha chiarito Clarelli – sebbene già nel 2013 una risoluzione del Parlamento europeo abbia invitato la Commissione a garantire la cessazione dei conferimenti in discarica a vantaggio dell’inertizzazione”. “Ci sono questioni tecniche e scientifiche ma è evidente che c’è anche una necessità normativa – ha sottolineato Paolo Russo – bisogna fare sintesi e mettere mano a una criticità che non è dietro l’angolo, ma davanti”.