Che la green economy italiana si sia ormai ritagliata una posizione di rilievo a livello europeo lo confermano i dati pubblicati oggi dalla Fondazione Symbola nel rapporto “L’Italia in 10 selfie”. Con 47 milioni di tonnellate di rifiuti non pericolosi recuperati per essere avviati a riciclo, si legge nel dossier, l’Italia è prima della classe in Ue per recupero di materia dagli scarti, lasciandosi alle spalle Germania, Regno Unito e Francia. Eppure, se i numeri raccontano una trionfale cavalcata verso l’economia circolare, i fatti non di rado dipingono invece scenari ben più sfumati. Il quadro che ne emerge, piuttosto che ad una cavalcata, assomiglia anzi spesso ad una vera e propria corsa a ostacoli. Soprattutto per le imprese di settore.
Come nel caso della spa pubblica Contarina, in house controllata dal consorzio trevigiano Priula, alla quale lo scorso 16 agosto Regione Veneto aveva negato l’autorizzazione ordinaria al riciclo richiesta per l’impianto sperimentale di recupero materia dai prodotti assorbenti costruito in partnership con Fater a Lovadina di Spresiano, in provincia di Treviso. L’impianto, inaugurato nel 2015, era stato salutato con grande entusiasmo tanto dall’opinione pubblica quanto dagli addetti ai lavori. I prodotti assorbenti, simbolo dell’usa e getta, sono infatti da sempre considerati impossibili da riciclare. Puntando su tecnologie innovative e ricerca, Contarina e Fater – con il supporto dell’Ue – avevano però vinto la sfida, mettendo a punto un impianto capace di trasformare una tonnellata di prodotti assorbenti usati in 350kg di cellulosa e 150kg di plastica.
Un esempio virtuoso di economia circolare “made in Italy”, dalla portata quasi rivoluzionaria. Forse addirittura troppo rivoluzionaria per Regione Veneto, che infatti ad agosto 2016, con delibera di giunta, decide di non concedere a Contarina l’autorizzazione ordinaria al riciclo, richiesta ad ottobre 2015 dalla società pubblica «al fine di perfezionare il processo di trattamento per migliorare la qualità dei materiali riciclabili». Nella delibera, recependo un parere sulla vicenda reso a giugno 2016 dalla Commissione tecnica regionale sezione Ambiente, la giunta sostiene di non avere «titolo per definire nuove materie prime seconde o di definire, caso per caso, i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto di materiali non ricompresi negli specifici regolamenti europei o in decreti del Ministero dell’Ambiente». Niente autorizzazione, insomma, e tanti saluti all’economia circolare, visto che senza il “nulla osta” regionale i materiali generati dall’impianto non acquisiscono lo staus di materia prima seconda ma restano semplici rifiuti, da avviare, onerosamente, ad ulteriore trattamento.
Quella sul rilascio delle autorizzazioni ordinarie al riciclo è una disputa a colpi di carte bollate che da anni vede coinvolte su fronti contrapposti imprese ed enti locali ad ogni latitudine dello Stivale, al punto da spaccarne in due la geografia amministrativa: da un lato le Regioni dove è possibile ottenere le autorizzazioni, dall’altro quelle dove invece le richieste vengono nella maggior parte dei casi respinte al mittente. Pomo della discordia sono i criteri “end of waste”, ovvero i parametri che stabiliscono quando i materiali esitanti dal processo produttivo possano essere considerati “fine rifiuto”, cioè materia prima seconda tout-court. Ad oggi risultano disciplinati in maniera puntuale solo rottami ferrosi, vetro, rame e in parte i combustibili solidi da rifiuto, ma sia la normativa nazionale che quella comunitaria stabiliscono che, in assenza di criteri specifici per determinati flussi di materiali, il rilascio dell’autorizzazione ordinaria alle imprese del riciclo spetta obbligatoriamente alle Regioni o agli Enti da queste delegati, previa verifica “caso per caso” della sussistenza dei criteri di fine rifiuto stabiliti all’articolo 184-ter del Testo unico ambientale.
In realtà, sebbene sul punto la legge sia piuttosto esplicita, accade spesso che le autorità competenti, di fronte all’inerzia del legislatore nazionale e comunitario, scelgano di sottrarsi all’obbligo di legge, ritenendosi non deputate al rilascio delle autorizzazioni per quei flussi di materiali che non siano già disciplinati da appositi regolamenti. Ultimo caso in ordine di tempo è appunto quello della società in house trevigiana. La vicenda, come tante altre prima di lei, è puntualmente approdata alle aule della giustizia amministrativa. Con un esito che lascia ben sperare, visto che lo scorso 14 dicembre la terza sezione del Tar del Veneto ha dato ragione con sentenza a Contarina, annullando la delibera di giunta regionale.
Nel dispositivo si cita, tra l’altro, la circolare 10045 diramata dal Ministero dell’Ambiente il primo luglio 2016, un mese prima cioè della delibera incriminata, che aveva ricordato proprio come «in via residuale, le Regioni – o gli enti da queste individuati – possono, in sede di rilascio dell’autorizzazione prevista agli articoli 208, 209 e 211, e quindi anche in regime di autorizzazione integrata ambientale (Aia), definire criteri EoW previo riscontro della sussistenza delle condizioni indicate al comma I dell’articolo 184-ter, rispetto a rifiuti che non sono stati oggetto di regolamentazione dei succitati regolamenti comunitari o decreti ministeriali». Una posizione cristallina, quella del Ministero, tuttavia non sufficiente a convincere Regione Veneto ad autorizzare Contarina ad effettuare operazioni di riciclo nell’impianto di Lovadina di Spresiano. L’auspicio è che possa riuscirci la sentenza del Tar del Veneto, mettendo finalmente la parola fine ad una impasse burocratica che rischia di rallentare la corsa dell’Italia verso un futuro all’insegna dell’economia circolare.