Dalla qualità della raccolta differenziata agli impianti di trattamento, passando per la pianificazione regionale: ecco gli ostacoli da rimuovere sul percorso verso gli obiettivi europei di riciclo dei rifiuti urbani
Dimezzare i conferimenti in discarica puntando sulla costruzione di nuovi impianti di recupero. Contestualmente migliorare la qualità delle raccolte differenziate, per agevolare i processi di riciclo e ridurre le quantità di scarti da smaltire. Queste le coordinate che nei prossimi 15 anni dovranno guidare l’Italia nel percorso verso i target europei di circolarità sulla gestione dei rifiuti urbani. A partire dal tetto massimo del 10% di smaltimento in discarica da raggiungere entro il 2035. “L’ultimo rapporto di Ispra – dice Vannia Gava, sottosegretario al Ministero della Transizione Ecologica – ci dice che ancora oggi il 20% dei nostri rifiuti urbani finisce in discarica. Nel giro di quindici anni questo dato deve essere dimezzato. Per farlo – aggiunge – dobbiamo realizzare nuovi e più moderni impianti”.
Anche perché se gli impianti non vanno dai rifiuti, sono i rifiuti ad andare dagli impianti, al costo di onerosi e inquinanti viaggi dalle regioni meno infrastrutturate, tipicamente quelle del Centro-Sud, verso quelle dotate di siti di trattamento e recupero. Particolarmente critica la situazione sul fronte dei rifiuti organici da raccolta differenziata. Secondo Ispra nel 2020 circa 1,8 milioni di tonnellate sono state spedite a recupero in regioni diverse da quelle di produzione, principalmente per la mancanza di impianti. “Una situazione inaccettabile – commenta Gava – non solo per gli impatti ambientali, ma anche per i costi che ricadono sulle spalle dei cittadini”. Che non a caso, dice Ispra, sono più alti nelle regioni con meno impianti. “Il nostro obiettivo è l’autosufficienza regionale – prosegue il sottosegretario – e per questo abbiamo varato i bandi per l’assegnazione complessiva di 2,1 miliardi di euro a valere sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”.
“Quello della coesione territoriale è un obiettivo trasversale a tutto il PNRR – spiega Laura D’Aprile, capodipartimento per gli investimenti verdi al Ministero della Transizione Ecologica – sul fronte dei rifiuti urbani questo significa colmare i gap tra le regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, dove si concentrano le maggiori criticità in termini di produzione di rifiuti, assenza di impianti e di bassi valori di raccolta differenziata. A questo puntano le due linee d’investimento per le quali si è aperta in questi giorni la presentazione delle domande di finanziamento. La risposta fin qui è stata straordinaria, sia da parte dei comuni che dalle imprese”. Il PNRR però non è solo risorse, ma anche riforme. Come il Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti, che dovrà essere adottato entro la prossima primavera per compensare “l’insufficiente capacità di pianificazione delle regioni”, dice il PNRR, individuata come una delle cause principali degli squilibri territoriali in termini di impianti di trattamento. “Il problema della pianificazione territoriale è strutturale – dice D’Aprile – e nel tempo ha limitato l’innovazione tecnologica e l’industrializzazione nel settore dei rifiuti urbani. Il Programma non sarà però una pianificazione sovraordinata ma un supporto per le regioni, soprattutto per quelle che non hanno la capacità tecnica e organizzativa di mettere a punto piani di gestione che siano strutturati nel rispetto della gerarchia comunitaria di trattamento dei rifiuti”.
Nei prossimi quindici anni la partita per l’industrializzazione del sistema nazionale di gestione dei rifiuti urbani, nel rispetto degli obiettivi vincolanti fissati dall’Ue, non si giocherà però solo sul campo del PNRR, ma anche su quello della regolazione. Lo dimostrano i nuovi strumenti integrati da Arera con l’aggiornamento del metodo tariffario unico, in vigore dal prossimo gennaio, come il meccanismo delle cosiddette ‘tariffe al cancello’, un sistema di incentivi e disincentivi che contribuirà alla determinazione dei costi di conferimento agli impianti, e quindi al calcolo della Tari, con l’obiettivo di favorire l’adozione di soluzioni industriali di recupero nelle aree meno infrastrutturate. “Per gli impianti minimi, ovvero quelli indispensabili alla chiusura del ciclo, i corrispettivi applicati ai soggetti c he conferiscono saranno determinati in modo da valorizzare la prossimità – spiega Lorenzo Bardelli di Arera – quindi premieranno i territori che si siano dotati di strutture di trattamento. Allo stesso tempo un sistema di perequazione fornirà segnali di prezzo che disincentiveranno gli impianti di smaltimento (come le discariche, ndr) favorendo altre tipologie di impianto”.
A partire dal prossimo anno insomma la Tari aiuterà a rafforzare il concetto che più il territorio è servito da impianti industriali di recupero e meno costi si ribaltano sulle tariffe e quindi sulle tasche dei cittadini. Un meccanismo che oggi premia le regioni settentrionali, quelle tradizionalmente servite dalle grandi utility, dove il costo di gestione per abitante nel 2020 è di 165,6 euro mentre al Sud è di 195,7 e al Centro addirittura di 221,8. “I numeri – osserva Filippo Brandolini, vice presidente di Utilitalia – ci dicono che laddove la gestione dei rifiuti è industriale, sia nella fase della raccolta che del recupero di materia e di energia, fondamentale quest’ultimo per minimizzare lo smaltimento in discarica, la qualità del servizio si traduce anche in costi minori. Tutto questo è stato raggiunto anche per il tramite di integrazioni lungo le filiere” ha aggiunto. Del resto anche nell’anno della pandemia il mercato della gestione dei rifiuti urbani ha visto proseguire il trend di consolidamento dei soggetti industriali di maggiori dimensioni, che alle attività di raccolta, smaltimento e recupero energetico affiancano sempre di più anche quelle di recupero di materia, tradizionalmente svolte da piccole e medie imprese private. Dinamiche seguite con attenzione dall’occhio vigile dell’antitrust. “Non credo che l’integrazione verticale rappresenti una minaccia in sé alla concorrenza – spiega Alessandro Noce, dirigente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – naturalmente in alcuni casi una integrazione eccessiva a valle andrebbe valutata per verificarne eventuali effetti escludenti. Bisogna prestare attenzione soprattutto a quelle filiere nelle quali c’è una tradizione di imprenditoria privata”.
“Poter interloquire con gestori di livello industriale, siano essi pubblici o privati – ricorda Giuseppe Bortone, direttore generale di Arpae Emilia-Romagna – aiuta anche chi come noi è chiamato a eseguire controlli e monitoraggi sui processi. Avere un interlocutore tecnologicamente avanzato, che adotti ad esempio a sistemi di certificazione della qualità ambientale, è diventato un elemento di assoluta importanza”. Per traguardare gli obiettivi vincolanti di riciclo dei rifiuti urbani fissati dall’Europa non basterà però solo dotarsi di un sistema industriale, ma anche garantire l’elevata qualità dei materiali in ingresso negli impianti. Ovvero la qualità della raccolta differenziata. Perché da quella dipenderà non solo la resa dei processi di recupero ma anche il calcolo delle nostre performance ai fini del confronto con i target Ue. Al momento, dice Ispra, con il 54,4% di riciclo abbiamo centrato e superato l’obiettivo del 50% al 2020. A partire dal prossimo anno però il confronto con i target al 2025 (55%), 2030 (60%) e 2035 (65%) andrà effettuato utilizzando il nuovo metodo armonizzato introdotto per tutti i Paesi dell’Ue, più rigido rispetto a quello attuale e basato sulle quantità effettivamente avviate a recupero di materia sul totale dei rifiuti prodotti al netto degli scarti. Se lo applicassimo già da quest’anno, avverte Ispra, la percentuale di riciclo dell’Italia scenderebbe di ben 6 punti, piombando al 48,4%. Cosa succederà alla filiera degli imballaggi, che oggi risulta aver già raggiunto e superato tutti gli obiettivi specifici al 2025 per le varie frazioni ad eccezione della plastica? “Non ci saranno grossi ridimensionamenti rispetto agli obiettivi già raggiunti – garantisce il presidente di Conai Luca Ruini – anche perché il nuovo metodo è stato introdotto non tanto per correggere quello che succede in Italia quanto per intervenire su casi come quello della Finlandia, che dichiara il 110% di recupero complessivo o il Belgio che è quasi al 100%. La nostra rendicontazione invece nel caso della carta e dei metalli tiene già conto di quanto viene immesso negli impianti finali di recupero. Il dato che cambierà sarà invece quello della plastica, con numeri che potranno variare fino al 10%”.
Tema, quello degli scarti di processo, dirimente anche per un’altra delle filiere del riciclo dei rifiuti urbani, quella dell’organico, che nel 2020 ha pesato per il 39% sul totale delle raccolte differenziate. “Gli impianti stanno arrivando, anche al Sud e anche grazie al PNRR – osserva Massimo Centemero, direttore generale del CIC – ma non stiamo lavorando abbastanza intensamente sul fronte della qualità, che se per il compostaggio era importante per la digestione anaerobica diventa fondamentale. Le nostre analisi merceologiche dimostrano invece un leggero ma costante peggioramento della qualità”. Che oltre a ridurre la resa dei processi di produzione del compost o del biometano rischia di minacciare la sostenibilità economica delle attività di trattamento. “Per ogni punto di materiale non compostabile che arriva negli impianti c’è un ‘overcost’ di 50 milioni di euro a livello nazionale. Se 5% è un dato accettabile, in casi estremi si arriva anche al 15% – spiega Centemero – le nostre sono aziende manifatturiere e la qualità è un elemento determinante nel processo di generazione dei nostri prodotti”.