La Corte dei Conti fa un bilancio dei deficit del sistema nazionale di gestione dei rifiuti: tra lungaggini nelle procedure autorizzative e opposizioni ideologiche dal 2012 al 2020 risulta speso solo il 20% del miliardo e mezzo di fondi pubblici stanziato per la costruzione di nuovi impianti, soprattutto al Sud
Sono quasi duemila le opere relative alla gestione dei rifiuti finanziate con fondi pubblici nel periodo che va dal 2012 al 2020 per uno stanziamento complessivo pari a oltre un miliardo e mezzo di euro, del quale però ad oggi solo un quinto risulta erogato per pagare l’avanzamento o il completamento dei lavori. Tutto il resto sta lì, parcheggiato tra opere non completate e cantieri mai avviati nonostante l’adeguata copertura finanziaria, sospeso tra procedure autorizzative infinite e sindromi ‘nimby’. Il Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica redatto dalla Corte dei Conti (con la collaborazione, tra gli altri, di Donato Berardi, direttore di Ref Ricerche) conferma numeri alla mano un assunto cristallizzatosi di recente anche tra le pagine del Programma nazionale di ripresa e resilienza: quando si parla di gestione dei rifiuti il problema non è trovare i soldi, che non mancano, ma piuttosto tradurre i soldi in interventi concreti, ovvero in impianti. Che invece continuano a mancare, soprattutto al Sud.
Torniamo per un istante ai numeri. Su 1 miliardo 547 milioni di euro di finanziamenti stanziati negli ultimi otto anni per ben 1841 opere, si legge, l’avanzamento della spesa in relazione al completamento dei lavori si ferma al 20%, pari a 316 milioni, mentre opere finanziate per 655 milioni risultano ad oggi non completate e interventi per 576 milioni risultano addirittura mai avviati. “La realizzazione delle infrastrutture programmate e finanziate – scrive la Corte dei Conti – marcia a ritmi insufficienti“. Soprattutto perché a scandire quei ritmi è il metronomo della burocrazia: su una durata media delle opere stimata in 4,3 anni, ben più della metà del tempo, paria 2,7 anni, è assorbita dalla fase di progettazione, incluse le fasi autorizzative.
Ma c’è di più, perché se le infrastrutture più semplici, ovvero i centri di raccolta, di selezione e del riuso, richiedono in media 3,4 anni, quelle “strategiche” relative allo smaltimento o trattamento presentano una durata effettiva superiore, pari a 4,7 anni, circa 3 dei quali si perdono nelle fasi di progettazione e autorizzazione. “Da un lato – spiega la Corte – ciò sottende il fatto che i progetti per opere che insistono sulla raccolta sono di importo minore e presentano una minore complessità tecnica e realizzativa, aspetti che contribuiscono a ridurre i tempi delle diverse fasi, specialmente della progettazione e dell’esecuzione. Dall’altro lato, rileva indubbiamente anche la maggiore accettazione sociale delle stesse, che mitiga l’insorgere di NIMBY (Not In My Back Yard) e NIMTO (Not In My Term of Office)”. Tant’è che in media, l’opera finanziata nel settore dei rifiuti risulta essere di importo inferiore al milione. Dinamiche che, secondo la Corte, riflettono “l’enfasi posta negli anni nella comunicazione istituzionale sul raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata, e che con ogni probabilità ha trascurato di coltivare una consapevolezza collettiva circa la necessità di realizzare anche gli impianti di trattamento, riciclo e recupero energetico, necessari alla valorizzazione dei rifiuti e alla chiusura del ciclo”.
Considerazioni che trovano una evidenza “drammatica”, si legge nel dossier, se si guarda al tasso di realizzazione degli interventi di maggiori dimensioni, ovvero i grandi impianti di trattamento e smaltimento: interventi che si collocano tutti nelle regioni del Mezzogiorno, dove il fabbisogno di gestione è maggiore, ma che risultano completati per meno del 6%, confermando “deficit consistenti delle frazioni critiche del rifiuto indifferenziato e dell’organico” e un equilibrio che oggi “si regge evidentemente sulla movimentazione di rifiuto a grandi distanze, con il corollario di impatti ambientali conseguenti”. E infatti 5 regioni (Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo e Basilicata) su 8 del Sud riportano uno sbilancio gestionale rispetto alle frazioni indifferenziate, ovvero ne esportano più di quante ne importino, mentre per l’organico il podio dell’export, si fa per dire, va a Campania (-414.936 tonnellate), Lazio (-219.906) e Toscana (-201.410). Colpa anche della inadeguatezza dei piani regionali di gestione dei rifiuti, caratterizzati “da un forte scostamento” tra obiettivi e dati reali che ha contribuito, si legge nella relazione, “a determinare diversi sbilanci di gestione, con conseguente sottostima dei fabbisogni impiantistici”.
Uno stato di cose alla luce del quale non risulta difficile comprendere perché il Piano nazionale di ripresa e resilienza, si legge, “intenda declinare la ripresa nel settore dei rifiuti facendo leva su un salto di qualità nel quadro legislativo e regolatorio, puntando più sul pilastro delle riforme che su quello delle risorse, per ridurre i tempi di realizzazione delle opere e favorire l’azione degli operatori in un contesto semplificato”. Il primo dei provvedimenti attesi nella cornice del Pnrr, il decreto sulle semplificazioni ambientali, è appena stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Ora tocca mettere mano alle altre misure: la Strategia nazionale sull’economia circolare, ma soprattutto il Programma nazionale di gestione dei rifiuti, che dovrà individuare il fabbisogno di trattamento residuo e allinearlo in termini di dotazione impiantistica ai target vincolanti dell’Ue – 65% di riciclo e 10% di discarica entro il 2035. “Occorre aumentare la capacità di messa a terra delle risorse stanziate, quale principio guida per risolvere le lacune registrate. In tal senso, un impulso potrà giungere dall’adozione del PNGR, come elemento facilitatore affinché il Paese possa dotarsi di una strategia nazionale che funga da guida all’azione degli operatori privati – ivi comprese le società a partecipazione pubblica – che già oggi sono protagonisti di una quota maggioritaria degli investimenti nel ciclo dei rifiuti urbani”.