«Ogni giorno da Roma partono 150 camion diretti fuori Regione per avviare a trattamento i rifiuti – anche quelli da raccolta differenziata – per mancanza di impianti. Bisognerebbe impegnarsi per sostenere la nascita di terminali finali per un riciclo meccanico che sia il più possibile “a km zero”, ma l’unica risposta che viene dal legislatore è ancora quella della termovalorizzazione. Non ha senso». Così Claudia Salvestrini, direttrice del consorzio Polieco per il riciclo dei beni in polietilene, fa del “caso Roma” la cartina al tornasole di un Italia che, sul fronte dei rifiuti, resta aggrappata ai modelli del passato, ancora troppo spesso in equilibrio sul baratro dell’emergenza. Un Paese che stenta a mettere a sistema le sue innumerevoli best practice e dove il termine “economia circolare”, sebbene inflazionato, sembra indicare al momento più un contenitore vuoto che non un progetto organico, strategico, ma soprattutto concreto, di ridefinizione delle logiche di produzione e consumo basato su riciclo e riutilizzo. Nel frattempo, con le nuove direttive Ue oramai alle porte, le imprese del riciclo stentano, soffrono, chiudono i battenti mentre il business dei rifiuti, con il suo potenziale straordinario in termini economici ed occupazionali, rischia di rimanere ancora a lungo appannaggio quasi esclusivo dei titolari di forni e discariche. Siamo davvero pronti all’appuntamento con la “circular economy”? Per provare a capirlo Polieco ha promosso l’VIII Forum Internazionale sull’economia dei rifiuti, dal 16 al 17 settembre ad Ischia.
Dottoressa Salvestrini, quali sono i temi al centro del Forum?
«Quest’anno apriremo con una chiusura: quella dei dieci anni di attività sul traffico illecito di rifiuti verso l’Asia, soprattutto verso la Cina. Dieci anni di attività intensa, di viaggi, di incontri istituzionali che hanno portato a modifiche normative sostanziali della legge cinese, a controlli più severi e attenti. Anche grazie al supporto dell’imprenditoria seria cinese, che risentiva della concorrenza sleale. Oggi le istituzioni cinesi, anche grazie a Polieco, hanno intensificato la loro attività di controllo e stanno premiando le aziende che producono con un impatto ambientale pari a zero».
Al Forum si parlerà naturalmente anche di economia circolare. Come si presenta l’Italia alla sfida delle nuove direttive europee su rifiuti e riciclo?
«Economia circolare è un termine che si sta un pochino inflazionando. Troppo spesso si parla di economia circolare anche quando non è il momento di parlarne. Vorremmo che a Ischia ne venisse fuori l’esatta definizione, per come la intende la direttiva comunitaria: ovvero un sistema industriale ad impatto ambientale pari a zero. Un sistema economico più ecosostenibile. Oggi si può arrivare a realizzare dei manufatti, anche in plastica, senza utilizzare la materia prima vergine, quindi con un risparmio in termini di materie prime notevoli. Deve però cessare la cultura dell’usa e getta. Per questo occorrono politiche che premino le produzioni eco-compatibili basate su riciclo, recupero e riutilizzo».
Casi come quelli di Roma e della Sicilia mostrano un’Italia ancora profondamente frammentata, divisa tra eccellenze e ritardi o addirittura emergenze. Cosa è mancato e dove intervenire per spingere sulla creazione di quello che lei chiamava sistema industriale capace di trarre valore dai rifiuti?
«Quanto alle varie realtà geografiche del Paese, posso dirle che il sistema Polieco presenta tante eccellenze al Sud ma poche al Nord. Questo dipende però dalla tipologia del rifiuto trattato. In generale, però, la cittadinanza risponde bene se coinvolta, se responsabilizzata. La raccolta differenziata, ad esempio, va bene fino a quando non esce di casa. Comincia però ad andar male quando la raccolgo e la seleziono».
In che senso?
«Le faccio un esempio. Ogni giorno partono da Roma 250 camion al giorno per smaltire i rifiuti al Nord, con una produzione di CO2 che solo per la logistica è spaventosa. Bisognerebbe invece spingere il più possibile su trattamenti “a chilometro zero”, sostenere quanto più possibile gli impianti di riciclo, concentrare le proprie energie sulla realizzazione di terminali finali che non siano la discarica o la termovalorizzazione, ma il riciclo, il riutilizzo, il recupero meccanico di materia. Produrre un materiale rigenerato di alta qualità – e l’Italia in grado di farlo – per restituirlo ai produttori di manufatti. In questo modo sì che si fa economia circolare, come vuole la direttiva comunitaria. Ma come posso riuscirci se le ultime norme ambientali mi parlano ancora di termovalorizzazione e soltanto termovalorizzazione? Non ha senso. Prima devo incentivare al riutilizzo, al riciclo, poi come ultima ratio quello che non è economicamente vantaggioso riciclare lo termovalorizzo, ma solo come ultima ratio».
Qualcosa in questo senso era contenuto nella legge “green economy”. Mi riferisco al sistema degli acquisti verdi nella pubblica amministrazione. Ma è sufficiente ad incentivare il riciclo industriale?
«Sarebbe di sicuro un buon punto di partenza. Lei immagini cosa accadrebbe se tutte le pubbliche amministrazioni italiane ordinatamente consumassero le percentuali di materia riciclata previste per legge. Sarebbe di sicuro un ottima valvola di sfogo e di utilizzo del materiale rigenerato. Si possono però attivare anche tante altre politiche. Pensi agli arredi urbani. Se noi partissimo con i parchi giochi, le pensiline per l’attesa degli autobus e tutto quello che oggi la circonda nella vita cittadina avremmo sicuramente un mercato molto più ampio. Altrimenti succede come all’azienda italiana, una delle aziende leader, che ha rifatto il pavimento del Louvre a Parigi con la plastica riciclata e che però è fallita. In Italia non trova più la pavimentazione fatta da questo imprenditore ma la trova a Parigi, al Louvre. Occorre una sensibilità nuova verso questo tipo di prodotti».
Quando parliamo di raccolta differenziata e riciclo pensiamo subito alla plastica e in particolare alle classiche bottiglie in Pet. Qual’è lo stato di salute di quel sistema?
«Oggi abbiamo percentuali di raccolta differenziata notevoli, si raccoglie un quantitativo elevato di rifiuti urbani però si inviano a riciclo percentuali bassissime. Uno studio fatto di recente dai produttori di imballaggi primari dimostra che circa il 64-70% degli imballaggi raccolti viene distribuito tra discarica e termovalorizzazione e solo la rimanenza viene avviata a riciclo. Allora, se io ho un sistema così fatto, dove a fronte di notevoli sforzi da parte dei cittadini per raggiungere le percentuali e di notevoli oneri, perché alla fine è il cittadino che paga il contributo per l’avvio a riciclo, ottengo una percentuale così bassa, vuol dire che il sistema da qualche parte va modificato. Va migliorato, va calmierato. Evitando sprechi, evitando elargizioni contributive e magari con politiche che incentivino veramente il riciclo. Oggi l’industria del riciclo in Italia soffre di alcune carenze che non sono economiche, ma strutturali, come quando arriva a pagare l’energia elettrica più cara che in altri Paesi. Un impianto di riciclo della plastica vive con l’energia: per il lavaggio, l’estrusione e quant’altro. Occorrono politiche che aiutino, magari con fonti di energia rinnovabili o permettendo agli impianti di utilizzare tutto ciò che non va a riciclo per produrre energia per il loro fabbisogno».