Un rapporto a cura dello studio di consulenza finanziaria Value Partners, dipinge una congiuntura positiva per gli investimenti nel comparto rifiuti. Più certezza nella pianificazione ed una maggiore capacità di prevedere i flussi di materiali e le loro valutazioni, dovuta alla sempre più stringente normativa quadro europea. La certezza di poter prevedere una crescita dei volumi di rifiuti prodotti nel medio termine grazie al trend di ripresa economica. Sempre più attenzione e necessità di investire in servizi di riciclo di alta qualità. Prospettiva di sempre più sinergie tra trattamento e valorizzazione energetica per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei conferimenti in discarica. Tutti questi aspetti permettono all’attuale congiuntura, Europea in generale ed Italiana in particolare, di proporsi come ideale per favorire l’attrazione di capitali (o meglio di investimenti) nel comparto.
È l’analisi restituita dal rapporto a cura dello studio Value Partners, di base a Milano, ma con esperienze internazionali di consulenza finanziaria e intitolato “The Waste we Produce: Stinky Gold?”. L’analisi fotografa vizi e virtù della gestione rifiuti nostrana per prevedere come evolverà il mercato del comparto, a partire dai suoi attori. Già, perché, come denunciato ormai da più fronti (che si parli di corruzione o di competitività del settore), il panorama nostrano sul fronte della gestione dei rifiuti urbani è caratterizzato da una estrema frammentazione che il report schematizza in quattro categorie: le microimprese che fatturano meno di 10 milioni di euro l’anno, sono il 45% degli oltre 5mila attori autorizzati a raccogliere e gestire rifiuti, ma si dividono un mero 3% degli introiti; le piccole imprese (32% delle compagnie per il 15% delle quote); le medie imprese (che con fatturati entro i 50 milioni sono il 19% del totale e si garantiscono il 35% degli introiti totali); e infine le grandi compagnie (con oltre 50 milioni di euro di fatturato annuo) che sono soltanto il 4% del totale, ma si dividono quasi la metà del banco, per la precisione il 48% del fatturato dell’intero comparto.
Per sua natura lo studio guarda al futuro partendo da una base di assunti che tuttavia non sono scontati. Uno su tutti la stabilità data dall’istituzione di un’autorità di regolamentazione che vigili sul settore come è accaduto per acqua, gas ed energia: ma sebbene questo intervento dovesse far parte di una costola della più ampia riforma Madia per rivedere i pubblici servizi e fosse dato per acquisito entro la fine di novembre 2016, dopo la bocciatura della corte costituzionale al provvedimento madre nessuno ad oggi ha provveduto a recuperarlo. Ma torniamo all’analisi dello studio.
Il proliferare di piccole e piccolissime realtà imprenditoriali è una condizione peculiare del nostro Paese, ma anche un motivo di fragilità considerata la maggiore capacità di resistere alle congiunture di crisi dimostrata negli scorsi anni dalle grandi compagnie rispetto alle PMI. L’attenzione si focalizza sempre più sugli rsu perché nel caso dei rifiuti speciali è il mercato a fare il prezzo, mentre per i servizi urbani contano molto le politiche. Ed è su questo fronte che la situazione sta evolvendo (anche se troppe variabili sono nelle mani delle amministrazioni locali). Innanzitutto, a differenza del resto d’Europa, l’Italia vede ancora strettamente legate crescita economica (e quindi dei consumi) e aumento della produzione di rifiuti. E questo, se l’Italia dovesse confermare il trend positivo del PIL del 2016, significherebbe nel breve un maggiore volume di affari. Nel lungo termine, però, per rispondere alle ambiziose direttive europee (ed allinearsi alle buone pratiche) le imprese del comparto dovranno essere in grado di offrire servizi di alta qualità: lo Stato con la tassazione delle pratiche meno sostenibili e incentivi come quello del green public procurement dimostra di andare in quella direzione, senza contare che le scelte del legislatore si intrecciano con l’incremento della “coscienza green” dei cittadini. In altre parole questa congiuntura secondo Value Partners è a dir poco favorevole per chi è in grado di offrire livelli di gestione e trattamento sempre più complessi e/o di garantire introiti per la vendita dell’output (che si tratti di materia riciclata, di compost o di energia).
Questo avrà effetti a lungo termine su volumi e prezzi dei rifiuti prodotti. Già, perché tecnologia, legislazione e comportamenti dei cittadini contribuiranno ad una riduzione del tasso di incremento della produzione totale da una parte, ma a trattamenti dal sempre maggiore valore aggiunto dall’altra. In soldoni – sempre secondo la proiezione di Value Partners – prendendo il dato 2015 come “base 100”, i costi di gestione dell’indifferenziato aumenteranno del 13% nel 2020 e del 44% entro il 2035, quando invece la raccolta differenziata costerà il 14% in meno, mentre raccogliere, trattare e smaltire i rifiuti speciali costerà il 9% in più nel 2020 e il 30% nel 2035.
Chi sarà a beneficiare di questo contesto? Tendenzialmente proprio le grandi compagnie, in particolare le multiutility (specificamente A2A, IREN, HERA e ACEA), che potranno comprare i piccoli player locali (non solo nel comparto rifiuti) per aumentare il loro controllo sul territorio e favorire sinergie tra gestori di rsu e di rifiuti speciali.
Benefici che vanno invece diminuendo man mano che si riduce la portata delle aziende, nell’ordine: grandi compagnie che erogano soltanto servizi di gestione rifiuti, multiutility limitate territorialmente e piccoli player. Nel futuro disegnato da Value Partners questi ultimi sono destinati ad essere assorbiti dalle grandi multiutility, ma sono il nucleo di potenziali poli di eccellenza specializzati. Insomma, ad ogni livello il messaggio sembra essere uno solo: è il momento di investire in questo affare “puzzolente”.