Doccia fredda per il Governo, che invoca semplificazioni per uscire da una “palude” burocratica “opprimente” per il Paese. Manna dal cielo per le opposizioni, all’attacco sulla competenza del legislatore. La bocciatura data dalla Corte Costituzionale alla legge delega Madia sulla riforma della pubblica amministrazione ha avuto l’effetto della proverbiale benzina sul fuoco per il dibattito sul referendum costituzionale del 4 dicembre, con lo schieramento per il SI che rilancia l’esigenza di rivedere i rapporti Stato-Regioni e quello per il NO che interpreta la vicenda come anticipo sulla sconfitta che la maggioranza dovrà incassare alle urne.
Ciò di cui non si è parlato, però, sono le conseguenze della bocciatura ed il merito delle misure concrete che verranno così bloccate. O quanto meno rimesse in discussione. La legge 124 del 7 agosto 2015, infatti, si è tradotta nel marzo scorso (tra gli altri) in un decreto legislativo che – di fatto – una volta reso attuativo avrebbe dato un nuovo testo unico di riferimento all’amministrazione dei servizi pubblici locali. La riforma, su questo fronte, si proponeva di introdurre misure molto attese e molto discusse anche sul fronte dei servizi di gestione dei rifiuti urbani. Lo spirito doveva essere quello di ottimizzare e razionalizzare, mettendo un freno agli affidamenti diretti da parte dei Comuni (che sarebbero stati costretti a motivare economicamente e nel merito tutte le scelte non sottoposte a gara pubblica) e introducendo l’attesa figura di una nuova Authority nazionale di monitoraggio sui rifiuti. La preannunciata ARERA dovrebbe rispondere a quello che da più parti è stato identificato come il principale problema dell’Italia sul fronte del waste management (declinando in materia di rifiuti una serie di vizi cronici della pubblica amministrazione nostrana): la frammentazione dei servizi e la conseguente disomogeneità sui territori nella loro erogazione, oltre ad un’insostenibile e talvolta ingiustificata asimmetria tra qualità e costi degli stessi.
Ad essere bocciate, tuttavia, non sono state queste misure nello specifico, ma la legge “madre” in toto. La motivazione della Corte Costituzionale nell’accogliere alcune delle istanze presentate dalla Regione Veneto sta in una procedura alle fondamenta dell’impianto normativo, che per via della vastità delle materie che andava a toccare è stato sottoposto ad un mero parere della Conferenza Stato-Regioni, mentre la molteplicità delle materie (e della natura stessa della legge-delega in diritto pubblico) che si vanno a toccare avrebbe obbligato l’Esecutivo a strappare un’intesa in sede di Conferenza unificata sull’intero testo della riforma. Viene così minato non tanto lo spirito alla base delle misure di cui sopra, si nega bensì proprio l’opportunità da parte del Governo centrale di redigere un Testo Unico cui gli amministratori locali debbano fare riferimento (senza passare da un via libera degli stessi).
E così per una serie di misure che sembravano in dirittura di arrivo pare che non resti altro da fare se non procrastinare sine die. O meglio fino a quando non saranno scaduti i termini della delega del Parlamento al Governo per legiferare in materia di PA: incassasse un successo al referendum, il Governo avrebbe sicuramente un’arma in più nei confronti della Corte Costituzionale considerato che si vanno a toccare proprio le questioni di competenza tra Stato centrale ed amministrazioni regionali, ma sarebbe comunque difficile intervenire entro i tempi necessari a rimettere sui binari la riforma. Non resta che attendere i prossimi sviluppi.