Italia al top in Ue per utilizzo di materia recuperata dai rifiuti, ma le imprese chiedono interventi urgenti per dare stabilità al settore
Ha tenuto botta quando la Cina stava facendo saltare il mercato mondiale dei rifiuti. Da un anno sta resistendo ai colpi durissimi dell’emergenza pandemica. Oggi è in prima linea nel percorso verso l’agognata transizione ecologica. Sarà anche un termine abusato, piazzato in questi mesi nei contesti più disparati fino quasi a svuotarlo di senso, ma se accostato all’industria italiana del riciclo l’aggettivo “resiliente” torna ad acquistare il suo significato più profondo. La capacità delle nostre filiere circolari di resistere agli scossoni del tempo, del resto, non è storia recente, ma viene da molto lontano. «Quella del recupero di materia dai rifiuti – spiega Paolo Barberi, presidente di FISE Unicircular, intervistato oggi da Monica D’Ambrosio su Ricicla.tv – è una capacità tecnica che le aziende italiane hanno maturato in decenni di attività».
In un Paese povero di materie prime come l’Italia, per una buona fetta del sistema economico il recupero di risorse dai rifiuti era infatti questione vitale ben prima di arricchirsi delle connotazioni etiche e ambientali ormai note a tutti. Dove gli altri vedevano scarti senza valore, le industrie e manifatture italiane trovavano la soluzione al problema dell’eccessiva dipendenza dall’importazione di materie vergini dall’estero, che appesantiva i costi di produzione e limitava la competizione sul mercato. Come i nostri distretti cartari, autentiche eccellenze mondiali, che secoli fa impararono a trasformare stracci e maceri in nuovi prodotti per far fronte alla mancanza di foreste. O come le nostre acciaierie, che già dai primi del ‘900, data la pressoché totale assenza sul territorio nazionale di giacimenti di carbone e minerale di ferro, fondevano i rottami in nuovo acciaio. Imprese che oggi fanno dell’Italia la seconda siderurgia d’Europa alle spalle della sola Germania. «Oggi – dice Barberi – alle aziende nate in maniera artigianale già nell’immediato dopoguerra, che nel frattempo sono cresciute e si sono strutturate, se ne aggiungono tante altre, nate in tempi successivi con un imprinting tecnologico e scientifico di livello molto alto».
E adesso che la scelta di sostituire materia riciclata a quella vergine, che per noi era di puro mercato, è diventata per tutti la strada maestra da seguire per contrastare inquinamento ed emissioni in atmosfera e ridurre lo sfruttamento di risorse naturali, forte della sua lunga tradizione circolare il nostro Paese fa da capofila in Europa e nel mondo. Un primato che nella giornata mondiale del riciclo è giusto rimarcare. Partendo da un dato: secondo Eurostat, a fronte di un tasso di utilizzo circolare di materia medio (quello che misura quante MPS, materie prime secondarie da riciclo, vengono sostituite alle risorse vergini) che in Ue oggi è fermo all’11,7%, l’Italia con il suo 19,3% stacca tutti e figura come il Paese che utilizza nei propri cicli produttivi le quantità maggiori di risorse derivanti dal riciclo dei rifiuti.
Secondo l’ultimo rapporto “L’Italia del Riciclo”, ad esempio, nel 2019 abbiamo consolidato i livelli d’eccellenza raggiunti negli ultimi anni nel recupero di materia dai rifiuti d’imballaggio, riciclandone 9,6 milioni di tonnellate e centrando con ampio anticipo i nuovi obiettivi europei sull’economia circolare al 2025 per tutti i materiali, ad eccezione della plastica, che resta un grattacapo globale. L’Ispra ci dice invece che è di poco distante il target del 55% di riciclo complessivo dei rifiuti urbani, con l’Italia che nel 2019 si è attestata intorno al 50%, pari a oltre 15 milioni di tonnellate, mentre per i rifiuti speciali, ovvero quelli prodotti dalle attività commerciali, industriali e artigianali, nel 2018 il recupero di materia ha interessato addirittura il 67,7% della produzione complessiva. Crescono le percentuali di recupero per rifiuti tessili, olii vegetali e minerali, pneumatici a fine vita e rifiuti da costruzione e demolizione, con questi ultimi arrivati nel 2018 ad un tasso di recupero che sfiora l’80%. Quanto ai benefici economici e ambientali, per il solo riciclo degli imballaggi nel 2019 il Conai, nel suo ultimo rapporto di sostenibilità, stima in 4,5 milioni di tonnellate i materiali vergini risparmiati e in 402 milioni di euro il valore delle materie prime secondarie recuperate, mentre sarebbero oltre 4 milioni le tonnellate di Co2 equivalente non emesse in atmosfera. Un gigantesco contributo al raggiungimento dell’obiettivo “zero emissioni” al 2050 fissato dall’Unione europea nel suo Green Deal.
Filiere, quelle del riciclo, resilienti al punto da aver resistito negli ultimi anni a una serie di colpi pesantissimi, che avrebbero potuto mandarle a gambe all’aria. Come nei giorni del lockdown, quando il fermo di attività manifatturiere fondamentali come automotive ed ediliza ha determinato una forte contrazione della domanda di materia riciclata e un conseguente crollo dei prezzi delle MPS. Ma il sistema ha tenuto botta, seppure con enormi sacrifici, continuando a garantire il ritiro dei rifiuti su tutto il territorio nazionale e impedendo che alla crisi del covid si aggiungesse una crisi rifiuti di proporzioni nazionali. Così come era successo due anni prima, quando lo stop della Cina alle importazioni di scarti a partire dal gennaio 2018 aveva mandato in tilt il mercato globale, mettendo in seria difficoltà una filiera d’eccellenza come quella della carta riciclata, tradizionalmente esportatrice netta, con i maceri arrivati secondo stime di Unirima a perdere anche più dell’80% del loro valore di mercato. Anche in quel caso la raccolta e il riciclo non si sono mai fermati.
Eppure le principali teorie economiche avrebbero suggerito il contrario. «In queste fasi – scrive il Laboratorio Ref in uno dei suoi ultimi position paper – la “razionalità” economica suggerirebbe di raccogliere in maniera indifferenziata e smaltire i rifiuti, in luogo della raccolta differenziata laddove non esiste un reale sbocco per queste frazioni a riciclo». Le nostre filiere invece «continuano a ricevere rifiuti, anche in un periodo di crisi sanitaria come quello che stiamo vivendo – commenta Barberi – consentendo che non si blocchi il sistema economico e produttivo e continuando a riciclarli bene, per garantire il raggiungimento e in alcuni casi il superamento degli obiettivi vincolanti a livello europeo». Ma a che prezzo? «Tra gli effetti a medio termine dell’epidemia – emerge da un sondaggio realizzato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile – ci sono sicuramente i ritardi, i rallentamenti e i tagli degli investimenti programmati nel settore dei rifiuti: il 65% degli intervistati infatti dichiara di aver avuto o di prevedere ripercussioni sui budget già pianificati» mentre «alcune imprese segnalano tagli degli investimenti molto ingenti, che arrivano anche al 50% del budget destinato a ricerca e sviluppo e comunicazione».
Insomma, se le MPS restano invendute in magazzino perché non c’è domanda, o se il loro valore crolla per le imprevedibili dinamiche del mercato globale, i riciclatori hanno due sole alternative: compensare le perdite di tasca propria, per esempio tagliando investimenti in ricerca e innovazione, oppure chiudere. È la legge del mercato, si dirà. Certo. Il problema però è che quello del riciclo non è un mercato come gli altri. Il fallimento delle sue aziende, oltre a rappresentare un dramma economico e sociale, costringerebbe l’Italia a dire addio al raggiungimento dei target di legge vincolanti sull’economia circolare, 65% di riciclo e 10% massimo di smaltimento in discarica entro il 2035, e a quelli del Green Deal sulla riduzione delle emissioni climalteranti. Significherebbe, in parole povere, dire addio a quel ruolo da apripista nel percorso verso un futuro sostenibile conquistato con decenni di anticipo su ogni altro Paese d’Europa e del mondo. Un vantaggio competitivo che invece andrebbe messo in sicurezza. Oggi, spiega Ref, «il bilancio complessivo tra economia lineare e circolare dipende dalla valorizzazione sul mercato delle MPS», ma le crisi degli ultimi anni ci dicono che la sola legge del mercato potrebbe non essere più sufficiente a garantire il raggiungimento degli obiettivi di legge e, più in generale, la sostenibilità economica e ambientale delle attività di riciclo. Con buona pace dei proclami sulla ineluttabilità del passaggio “da un’economia lineare a un’economia circolare”.
Ecco perchè, all’alba dell’appuntamento con il Programma nazionale di ripresa e resilienza, gli operatori del riciclo chiedono interventi urgenti per tutelare e rafforzare le loro filiere d’eccellenza: rapidità negli iter autorizzativi per i nuovi impianti, a partire da quelli per il riciclo della frazione organica e per il recupero energetico degli scarti delle operazioni di riciclo: un fabbisogno che Utilitalia stima in oltre 30 impianti da realizzare principalmente al Centro e al Sud. E ancora, decreti “end of waste” che garantiscano una adeguata cornice normativa ai processi di recupero di materia, stimolando gli investimenti e il mercato dei materiali riciclati. Ma anche agevolazioni fiscali per i produttori che utilizzino materia prima secondaria, un rafforzamento del sistema degli acquisti verdi nella Pubblica amministrazione e soprattutto meccanismi di incentivazione che garantiscano ai riciclatori una adeguata remunerazione per ogni tonnellata di materia riciclata prodotta, compensando le eventuali perdite di valore legate alle oscillazioni dei prezzi sul mercato globale. È anche dalla capacità della politica di raccogliere questi appelli che dipenderà il successo della tanto auspicata transizione ecologica.