Inizierà domani e si concluderà venerdì a Washington la quarta edizione del Nuclear Security Summit, il vertice sulla sicurezza convocato per la prima volta nel 2010 dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ed al quale, come ormai da tradizione, prenderanno parte circa 50 leader da tutto il mondo per fare il punto sulle strategie di contrasto al terrorismo nucleare. Il tema della sicurezza negli impianti nucleari e nei siti di stoccaggio delle scorie, da sempre argomento centrale del Summit, assumerà stavolta un ruolo di assoluto primo piano. L’appuntamento di quest’anno si carica infatti di nuovi, inquietanti, significati, cadendo per una triste coincidenza a pochi giorni di distanza dalle stragi di Bruxelles e dal fallito tentativo di sottrarre materiale contaminato dal sito di stoccaggio delle scorie nella centrale di Fleurus, in Belgio. Materiale che, secondo gli inquirenti, gli attentatori avrebbero avuto intenzione di utilizzare per fabbricare “bombe sporche”, ordigni esplosivi frammisti a rifiuti radioattivi.
Al vertice statunitense sarà presente anche il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che concluderà a Washington un tour negli States partito martedì con la visita all’impianto Enel Green Power in Nevada. Triste coincidenza anche questa, visto che proprio mentre a Washington i leader mondiali si confronteranno su prospettive e criticità del nucleare negli anni del terrorismo fondamentalista, dall’altra parte dell’oceano, a Palazzo Madama, si farà invece il punto sui pesanti ritardi dell’Italia in materia di sicurezza, efficienza ed economicità nella gestione delle scorie. Ritardi imputabili, in buona parte, proprio all’inerzia di Palazzo Chigi.
Comincerà oggi infatti in Senato l’analisi della relazione della Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia. Approvato in via definitiva lo scorso primo ottobre, il documento è giunto all’attenzione dell’aula solo sei mesi dopo, nonostante l’estrema criticità del quadro tracciato dai membri della bicamerale nelle 50 pagine che compongono la relazione. A partire, naturalmente, dalla “perdurante mancanza – si legge nel documento – di un deposito nazionale ove collocare i rifiuti, oggi distribuiti in numerosi siti sparsi sul territorio nazionale”. Era atteso per lo scorso settembre il nulla osta congiunto dei Ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente alla desecretazione della Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee ad ospitare l’impianto, atto che avrebbe dovuto aprire il lungo e delicato percorso di confronto con le comunità locali per giungere alla scelta condivisa del sito su cui costruire il deposito nazionale. Settembre è passato, il nulla osta non è arrivato e da allora della Carta non si è saputo più nulla. Nel frattempo, i rifiuti radioattivi derivanti dallo smantellamento delle centrali italiane e dalle attività industriali, mediche e di ricerca continuano ad accumularsi nei 23 depositi temporanei sparsi in varie regioni d’Italia.
Così come nulla si è più saputo del programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi – altro capitolo della relazione della bicamerale – che l’Italia avrebbe dovuto adottare entro il 31 dicembre 2014, anche qui su iniziativa dei Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo, ma del quale ad oggi non c’è ancora traccia. Cosa che potrebbe condurre all’apertura di una nuova procedura comunitaria d’infrazione, come comunicato lo scorso gennaio dalla Commissione Europea. Anche su questo, il Governo mantiene il massimo riserbo. Così come tace sull’Isin, l’ente di controllo sul nucleare istituito il 4 marzo 2014 ma mai divenuto operativo, proprio perchè Palazzo Chigi non ha mai perfezionato la nomina dei suoi vertici. Anche all’Isin la bicamerale aveva dedicato ampio spazio nella sua relazione.
E a proposito di vertici, sulle sorti della gestione dei rifiuti radioattivi in Italia continua a pesare l’instabilità del cda di Sogin, l’ente di stato responsabile delle operazioni di decommissioning e del progetto per il deposito nazionale delle scorie. Instabilità abbondantemente documentata dalla bicamerale nella sua relazione e che a pochi giorni dalla approvazione del documento stava conducendo Sogin sull’orlo del baratro. Il 26 ottobre scorso, infatti, la notizia delle dimissioni dell’amministratore delegato Riccardo Casale per le “interminabili e sterili polemiche – scriveva Casale – instillate irresponsabilmente dal presidente dell’organo di presidenza della società” Giuseppe Zollino. Poi, a gran sorpresa, il dietrofront di Casale, nonostante il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan avesse inviato alla società una missiva nella quale si accettavano formalmente le dimissioni dell’ad. Almeno in quel caso, insomma, Palazzo Chigi aveva scelto di rompere il silenzio e scendere in campo nella partita del nucleare nostrano. Anche se la lettera di Padoan, datata gennaio 2016, era partita ad ormai quattro mesi di distanza dalle annunciate dimissioni di Casale. Meglio tardi che mai.
Magra consolazione, nel panorama disastrato delle scorie tricolori, l’annuncio dell’avvio delle operazioni di bonifica del deposito Cemerad di Statte in provincia di Taranto, uno dei 23 depositi temporanei della Penisola. Il sito, nel quale sono tuttora stoccati in condizioni precarie circa 13mila fusti di rifiuti, 3500 dei quali radioattivi, è dal 2000 sotto la custodia giudiziaria del Comune pugliese e da allora attende una bonifica più volte annunciata ma mai arrivata. Un obiettivo ideale, per chi desiderasse entrare in possesso senza troppe difficoltà di un po’ di scorie radioattive da mettere in circolo in canali oscuri. Fortunatamente, anche a seguito dell’allarme lanciato dalla bicamerale, lo scorso febbraio Palazzo Chigi ha scelto di stanziare con decreto 10 milioni di euro per le operazioni di rimozione dei fusti. La bonifica, che al momento non è ancora partita, dovrebbe concludersi entro il luglio 2017.