Sogin riparte. «A piccoli passi», per dirla con le parole dell’ingegnere nucleare Luca Desiata, che da un anno siede sulla poltrona di amministratore delegato della società. Piccoli passi per uscire da una lunga impasse. Tra gli obiettivi a breve termine la conclusione, entro fine 2017, dello smantellamento del camino della centrale nucleare del Garigliano. Poi, nel primo semestre 2018, il raggiungimento del primo “brown field”, vale a dire lo smantellamento completo di una centrale: quella di Bosco Marengo, in Piemonte. L’ente di Stato responsabile del decommissioning delle ex centrali nucleari e della costruzione e gestione del futuro deposito nazionale delle scorie radioattive prova così a lasciarsi alle spalle un lungo, buio periodo di instabilità amministrativa. Davanti, un orizzonte fatto di cantieri da sbloccare e progetti sui quali accelerare, per puntare con decisione all’obiettivo, ambizioso, della chiusura del decommissioning entro il 2035.
Prima però c’è da ridare a Sogin «credibilità e stabilità», come ha spiegato l’ad nel corso di una conferenza stampa alla centrale del Garigliano. Se infatti restano fuori discussione l’elevato valore tecnico dell’ente di Stato e la sua strategicità sul mercato internazionale (grazie al referendum del 1987 l’Italia è stata tra i primi Paesi al mondo a doversi porre il problema dello smantellamento degli impianti nucleari, potendo vantare ad oggi un know how di tutto rispetto), è altrettanto vero che anni di criticità gestionali hanno finito per indebolire Sogin tanto sul piano operativo quanto agli occhi dell’opinione pubblica.
Lascia ben sperare dunque il fatto che dallo scorso anno siedano per la prima volta al vertice della società due ingegneri puri – accanto a Desiata, che oltre ad essere ingegnere nucleare è anche un manager con lunga esperienza in Enel, il presidente Marco Enrico Ricotti è professore ordinario in impianti nucleari al Politecnico di Milano. Non era mai successo nella storia di Sogin, nata nel 2001 e troppo spesso condizionata da logiche che con il nucleare poco o nulla avevano a che fare. «Sogin è stata vittima di ingerenze politiche che hanno generato ritardi ed extracosti – ha detto Desiata – l’obiettivo di questo cda è ristabilire il ruolo di Sogin nel Paese, affermandone la vera natura, che è quella di una società estremamente specializzata e ad alto contenuto tecnico».
E non è un caso che il cda a guida Desiata-Ricotti sia il primo nella storia di Sogin ad avere messo in cantiere il cosiddetto “attacco al vessel”, ovvero lo smantellamento di un reattore nucleare, la fase più delicata del decommissioning di un impianto. In Italia non ci ha mai provato nessuno. Quello del Garigliano, previsto per gli inizi del 2019, potrebbe essere il primo. Un test importantissimo. «Finchè non avremo smantellato un vessel – spiega infatti Desiata – non saremo credibili sul mercato internazionale». Perché lo sguardo, oltre che alle quattro centrali italiane da smantellare, è rivolto costantemente ai Paesi che il nucleare lo utilizzano ancora, e che delle competenze di Sogin in materia di decommissioning hanno un gran bisogno. Come dimostra l’intensa attività svolta in Russia, per lo smantellamento in sicurezza dei sommergibili nucleari nella base di Murmansk, o i progetti attivati negli ultimi anni in Slovacchia. Nel solo 2016 le attività di Sogin all’estero hanno generato valore per 9 milioni di euro. Che potrebbero diventare 13 entro il 2018.
Passando ai dati sulla gestione snocciolati da Desiata nel corso della conferenza stampa, il 2017 dovrebbe chiudersi con un valore attività intorno ai 60 milioni di euro. Un risultato «nè buono, nè cattivo» chiarisce l’ad, aggiungendo che le cose avrebbero potuto andare meglio se non fosse stato per il “caso Cemex”, con Sogin che si è vista costretta a rescindere il contratto da 98 milioni con Saipem, per «manifesta incapacità» di quest’ultima a portare a termine la costruzione dell’impianto di cementificazione delle scorie radioattive liquide nella centrale di Saluggia.
Complessivamente, dal 2001 al 2016 i costi sostenuti per il decommissioning ammontano a 3,2 miliardi di euro, mentre il “piano vita intera”, ovvero l’intero programma di smantellamento del patrimonio nucleare italiano, dovrebbe costare, una volta terminati i lavori, circa 6,8 miliardi. Sulla base dei costi fin qui sostenuti, il piano di decommissioning risulterebbe completato al 26%, «ma si tratta di un dato da prendere con cautela», avverte Desiata. Anche per questo, per capire meglio cioè la relazione tra costi sostenuti e reale stato di avanzamento dei lavori, Sogin ha scelto di sottoporre il “piano vita intera” all’attenzione dell’Iaea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che la prossima settimana a Vienna comunicherà i risultati ufficiali dell’esame.
Ma il rilancio di Sogin non dipende solo da Sogin. Una bella fetta di responsabilità ce l’ha anche il governo. Perchè a frenare il decommissioning ci si mettono anche i tempi, faraonici, per il rilascio delle autorizzazioni necessarie ad attivare i vari interventi. La competenza, fino ad oggi, è stata in capo all’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale, che però, complice anche un organico sottodimensionato, riesce a rilasciarne solo una media di appena due al mese, «senza le quali Sogin non può muoversi», chiarisce Desiata.
Le cose potrebbero cambiare con l’entrata in funzione dell’Isin, l’Ispettorato per la sicurezza nucleare, che dovrebbe assorbire le funzioni di Ispra. Peccato che la procedura per l’attivazione dell’ente annaspi ormai da più di tre anni – la costituzione formale dell’Isin risale al marzo 2014, ma il via libera ufficiale di Palazzo Chigi non è mai arrivato – nelle sabbie mobili della politica. Dalle quali potrebbe però riemergere a breve, con l’approvazione del decreto legislativo sulla sicurezza degli impianti nucleari, che ha recepito la più recente direttiva Euratom in materia e che attende solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. «L’entrata in vigore dell’Isin rappresenta a mio avviso il traguardo più importante per la corretta operatività di Sogin – spiega l’ad – con una Isin forte e indipendente procederemo molto più speditamente nel nostro piano di decommissioning del nucleare italiano».
Ultima, ma non in ordine d’importanza, l’incognita deposito nazionale, struttura senza la quale non sarà possibile passare dalla fase di “brown field” – quando la centrale è smantellata ma i rifiuti radioattivi sono ancora stoccati lì in depositi temporanei – a quella di “green field” – quando invece tutte le scorie sono state rimosse dalle centrali e stoccate in sicurezza in un unico sito, il deposito nazionale, appunto. Fino a quando non sarà stato costruito il deposito, insomma, il piano a vita intera di Sogin non potrà concludersi. Anche in questo caso le responsabilità del governo non sono poche. Stando alle parole del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, entro la fine dell’anno Sogin dovrebbe finalmente ricevere il via libera alla pubblicazione della Cnapi, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare la struttura, e dare così il via alla lunga e delicata fase di confronto con le comunità locali per giungere alla scelta condivisa del sito.
Ed era ora, visto che la Cnapi, compilata da Sogin e ufficialmente consegnata ai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico (che dovrebbero rilasciare il nulla osta congiunto alla pubblicazione) già agli inizi di gennaio del 2015, resta da allora chiusa in un cassetto a prendere polvere. Forse per paura che con la sua pubblicazione il governo possa “macchiarsi” di una scelta potenzialmente impopolare. «Domani (oggi, ndr) scade la consultazione pubblica sul Programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi – spiega Desiata – che rappresenta un passo propedeutico indispensabile per arrivare alla pubblicazione della Cnapi. I segnali arrivati dal governo sono decisamente positivi». Che sia davvero la volta buona? Con le elezioni alle porte, chi è disposto a metterci la mano sul fuoco?