Ridurre l’estrazione in cava di materiali per l’edilizia puntando su riciclo e riutilizzo dei rifiuti da costruzione e demolizione (cosiddetti C&D). Questo l’appello lanciato da Legambiente nel “Rapporto cave 2017”, ottava edizione del dossier nel quale dal 2009 l’associazione del cigno verde monitora l’andamento dell’attività estrattiva in Italia, analizzandone i risvolti economici ed ambientali. Nonostante la crisi dell’edilizia, e la contrazione del 20,6% rispetto al 2010 del numero di siti attivi, si legge nel dossier, nel 2015 sono risultate operative 4752 cave, mentre 13414 sono quelle dismesse o abbandonate. Complessivamente, nel 2015 in Italia sono stati estratti 53 milioni di metri cubi di inerti (sabbia, ghiaia, pietrisco per calcestruzzo e cemento). Attività, si legge nel dossier, «con un impatto rilevante nei territori, che inevitabilmente sollecitano ragionamenti che riguardano il rapporto con una risorsa non rinnovabile come il suolo e di gestione dei beni comuni. È al cuore di questo conflitto tra identità e innovazione che dobbiamo guardare – spiega Legambiente – per capire la strada da intraprendere per il futuro del settore». Che la direzione debba essere quella del riciclo lo ha già messo in chiaro l’Unione Europea, fissando nella direttiva quadro sui rifiuti del 2008 un target di recupero di materia dagli inerti da C&D pari al 70% entro il 2020.
E se nel Vecchio Continente non mancano esempi eccellenti – dall’Olanda che con il 98% dei materiali recuperati è la nazione più virtuosa, all’Irlanda (97%), alla Danimarca (92%), alla Germania (91%) – l’Italia invece sarebbe solo apparentemente in linea con gli obiettivi Ue. Stando ai dati ufficiali del Ministero dell’Ambiente e dell’Istituto superiore per la protezione ambientale, in Italia il tasso di recupero di materia dai rifiuti da costruzione e demolizione si attesterebbe oggi ben al di sopra del 90% (47 milioni di tonnellate recuperate su 50 di produzione complessiva nel solo 2014, pari al 97%, riporta il Rapporto Ispra rifiuti speciali 2016). Secondo Legambiente, però, ogni anno in Italia non si riciclerebbe in realtà più del 9%-10% dei rifiuti edili generati. Questo perchè «nelle statistiche ufficiali solo le imprese di una certa dimensione vengono incluse perché la percentuale di riciclo viene calcolata dall’Ispra attraverso le informazioni contenute nel Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) – si legge nel dossier – ma la sua compilazione è obbligatoria solo per i soggetti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento di tali inerti, mentre le imprese di costruzione sono esentate, e specialmente in Italia esse rappresentano una quota decisamente significativa. Gran parte dei rifiuti da C&D non è dichiarata – prosegue il rapporto – e viene ancora oggi abbandonata illegalmente sul territorio».
In alcuni territori del Paese, stando al dossier, il tasso di illegalità nello smaltimento dei rifiuti di cantiere raggiungerebbe addirittura il 50% del totale, condotta spesso legata al tentativo da parte delle imprese di recuperare in questo modo gli eccessivi ribassi delle gare d’appalto. Tutto questo nonostante la direttiva europea 21 del 2006 preveda «per tutti gli Stati membri l’adozione di severe misure sulla gestione dei rifiuti derivati da attività estrattiva» come «la redazione di un piano di gestione dei rifiuti per la riduzione al minimo degli stessi, il trattamento, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti di estrazione, nel rispetto del principio dello sviluppo sostenibile». Prescrizioni che non tutte le Regioni italiane hanno però saputo tradurre in provvedimenti normativi o quantomeno in una efficace azione di controllo. Eppure, racconta il dossier, «in due casi in particolare, non a caso territori che hanno legiferato da tempo su questo argomento, i numeri sono molto chiari: nella sola Provincia Autonoma di Trento si producono ogni anno oltre 800mila metri cubi annui di aggregati riciclati, mentre in Veneto si arriva addirittura a 1 milione 300mila metri cubi annui».
Ma se garantire una più efficace tracciabilità dei flussi di rifiuti da C&D potrà servire ad aumentare le quantità in ingresso negli impianti (tra i 2mila ed i 3mila quelli attualmente autorizzati, tra fissi e mobili) e quindi l’offerta di inerti riciclati, è sul fronte della domanda di mercato che il settore sconta le maggiori difficoltà. «Nonostante la competitività del prezzo di vendita dei prodotti, in media il 50% in meno degli inerti da attività estrattive – si legge nel dossier – l’impiego dei materiali riciclati continua ad assistere un momento di grave difficoltà dovuta alla diffidenza delle stazioni appaltanti pubbliche e private da ricondursi alla mancanza di regole chiare in relazione al tema». Non che negli anni siano mancati i tentativi di razionalizzare e stimolare il settore, soprattutto con il meccanismo dei cosiddetti “acquisti verdi” nella pubblica amministrazione. Caso paradigmatico quello del decreto del Ministero dell’Ambiente numero 203 del 2003, che aveva introdotto l’obbligo per gli enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, di utilizzare, a copertura di almeno il 30% del fabbisogno annuale, manufatti e beni realizzati con materiale inerte riciclato. «Purtroppo – spiega però Legambiente – ancora oggi tale obbligo non viene soddisfatto a causa della poca informazione da parte degli Enti Locali sulla elevata qualità che i prodotti riciclati hanno raggiunto e preferendo quindi utilizzare materiali vergini ed estratti dalle cave».
Di recente il Ministero è nuovamente intervenuto sul tema, con un decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale a gennaio 2016 che, in attuazione della legge “Green Economy”, ha introdotto i Criteri Ambientali Minimi (CAM) per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici della pubblica amministrazione, sancendo inoltre l’obbligo per le opere edili e i cantieri appaltati dalla Pa «di prevedere un piano di gestione dei rifiuti prodotti in fase di progetto, in cui sia previsto il 70% minimo di avvio a recupero dei materiali». Con l’auspicio che non si ripeta quanto già accaduto per il dm 203.
Ciononostante, per Legambiente «occorre allargare la quota di mercato degli aggregati riciclati, che oggi grazie all’innovazione tecnologica e all’applicazione da anni nei principali Paesi europei hanno le stesse prestazioni degli aggregati naturali per impieghi nel settore edilizio». La prima scelta fondamentale, si legge nel dossier «è di fissare un obbligo nei capitolati di utilizzo degli aggregati riciclati minimo e crescente fino al 70% al 2020» non solo per gli Enti pubblici, come previsto attualmente per il solo 30% dei materiali dal Decreto Ministero dell’Ambiente 203/2003, ma per tutte le opere senza distinzione. Al tempo stesso Legambiente chiede di prevedere nei bandi di gara che a parità di altre condizioni debba preferirsi l’offerta che proponga la più alta percentuale di impiego dei materiali riciclati, nonchè di stabilire che nei capitolati, rispetto alla valutazione dei materiali utilizzati, debba valere solo un principio “prestazionale” e non di “provenienza”, che finisce inevitabilmente per privilegiare gli inerti da cava. «L’obiettivo – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – è di spingere la filiera del riciclo, che garantisce almeno il 30% di occupati in più a parità di produzione, e che può garantire prospettive di crescita molto più importanti e arrivare a interessare l’intera filiera delle costruzioni. Ma per realizzare ciò servono delle scelte e delle politiche chiare da parte di Governo e Regioni».
Non sta chiaro come si risolve la tracciabilità