Il recupero di materia aiuta a ridurre i consumi energetici, ma i rendimenti decrescenti del riciclo e la necessità di ridurre il ricorso alle discariche rendono indispensabile anche il recupero energetico. Ecco come puntare sui rifiuti per ridurre i consumi di energia e diversificare le fonti
A meno di una settimana dall’insediamento del nuovo Parlamento e mentre si continua a lavorare alla costruzione del governo a probabile guida Giorgia Meloni, l’inverno si avvicina a passi minacciosi gettando la propria ombra sulla peggiore emergenza energetica della storia repubblicana. Che oltre a esporre le economie di famiglie e imprese ai morsi implacabili del caro bollette mette a rischio l’integrità stessa del nostro sistema energetico, tra i più vulnerabili alla crisi delle forniture innescata dall’invasione russa ai danni dell’Ucraina. Per sottrarsi al ricatto del gas di Mosca ed evitare di lasciare al buio famiglie e imprese, le strade da percorrere, nell’immediato, sono due: ridurre i consumi e diversificare le fonti di energia. Oltre a mettere su i maglioni e tirare giù di un grado i termosifoni, o correre a destra e sinistra per il mondo in cerca di metano, dovremmo però anche imparare a conoscere meglio la gerarchia europea dei rifiuti. Perché riducendoli, riusandoli e riciclandoli di energia potremmo risparmiarne un bel po’. “Esistono moltissimi studi di Life Cycle Assessment – spiega Antonio Massarutto, economista e docente all’Università di Udine – che dimostrano come il bilancio energetico associato all’uso di materia prima vergine nei cicli produttivi sia di gran lunga più pesante rispetto all’utilizzo di materiali da riciclo. Ma anche rispetto al riuso dei prodotti o, meglio ancora, rispetto a una progettazione ecosostenibile che riduca la produzione di scarti”. E per tutto quello che non è riducibile, riutilizzabile o riciclabile? “Beh – dice Massarutto – visto che quei rifiuti in qualche modo dobbiamo gestirli, ricavarne un po’ di energia non è poi così male”.
È a questo punto che entra in ballo la quarta ‘r’ della gerarchia, quella del recupero. Recupero di energia e calore negli impianti di incenerimento, ma anche di biogas, o meglio ancora di biometano, che può essere ricavato dalle frazioni organiche dei rifiuti e immesso in rete al posto del metano fossile. Che tradotto significa diversificazione delle fonti, un’azione “vitale per il nostro Paese, fortemente dipendente dalle forniture estere – sottolinea Elisabetta Perrotta, direttore di Assoambiente – e sappiamo benissimo qual era fino a poco tempo fa uno dei paesi dai quali importavamo di più”. Certo, aggiunge Massarutto, “recuperare energia dai rifiuti non basterà a sostituire il gas russo”. Ma ignorarne il potenziale, nei giorni dell’affannosa ricerca di un mix che liberi l’Italia dal cappio delle fonti fossili d’importazione, è un lusso che non possiamo permetterci. “Dovremmo abbandonare i preconcetti che circondano i temi della gestione dei rifiuti – dice Perrotta – e puntare sulla diversificazione anche attraverso il recupero di energia”.
Anche perché risparmiare energia riciclando o riusando, spiega Massarutto, è sì più vantaggioso che produrne bruciando rifiuti o trasformandoli in biogas e biometano, ma solo fino a un certo punto. Quel punto, in termini economici, si chiama ‘rendimento decrescente’. “Il risparmio di energia è molto elevato per le prime unità di riciclo o di riuso – spiega – ma lo diventa sempre meno man mano che ci spingiamo verso il 100%. Per lo meno allo stato attuale delle tecnologie”. Anche per questo l’Unione Europea ha fissato al 65% il target di riciclo dei rifiuti urbani e al 10% massimo lo smaltimento in discarica da raggiungere entro il 2035. Oggi l’Italia è intorno al 56% di riciclo e al 20% di discarica. “Arrivare al 65% sarà faticoso” osserva, e ci lascerebbe comunque con un 25% da gestire senza ricorrere allo sversamento. “Lì – dice – si apre la partita delle soluzioni alternative“. Da una parte le nuove strade, come quella del riciclo chimico, che però “non ha ancora applicazione su scala industriale – sottolinea – quindi presenta ancora parecchi punti di domanda, come i costi o gli scarti di processo”. Dall’altra tecnologie consolidate e utilizzate in tutta Europa, come l’incenerimento “con recupero di energia e calore ed emissioni inquinanti ridotte praticamente a zero”.
Anche sul fronte incenerimento siamo al momento intorno al 20%, ma con un netto squilibrio tra le Regioni del Nord (26 impianti) e quelle del Centro-Sud (11). “Basterebbe che il Sud raddoppiasse la propria capacità per arrivare a una produzione complessiva di energia elettrica tale da coprire il 5% del fabbisogno nazionale” commenta Alessandro Fabbrini, presidente di Sienambiente, che con il termovalorizzatore di Poggibonsi l’anno scorso ha trattato 70mila tonnellate di rifiuti urbani generando 31 GWh di elettricità. L’indice di efficienza energetica dell’impianto, ovvero il rapporto tra l’energia generata, quella consumata e i rifiuti trattati, nel 2019 ha sfiorato l’80% (il limite minimo è del 60%). Una performance d’eccellenza, a differenza di molte delle installazioni attualmente attive in Italia, che invece soffrono un serio problema di obsolescenza. “Molti impianti sono vecchi – dice Massarutto – e andrebbero sostituiti anche per garantire un migliore abbattimento delle emissioni e una maggiore efficienza nella produzione di elettricità e calore”. Il problema è che “quando si va a chiedere l’autorizzazione per rinnovare un termovalorizzatore la battaglia è persa, anzi nove volte su dieci finisci per chiuderlo”, dice Fabbrini.
Oltre al tema del rilascio delle autorizzazioni, con “tempi fuori da ogni razionalità possibile” dice Perrotta che richiederebbero “una razionalizzazione e semplificazione del quadro normativo”, si pone anche quello dell’accettabilità sociale. “Qui l’unica strada percorribile – spiega – è quella della comunicazione. Per chiarire, ad esempio, che tutti gli impianti oggi sono obbligati a rispettare le cosiddette ‘BREF’, il pacchetto di parametri europei che impone limiti di emissione e obblighi di monitoraggio e che vincola le imprese al costante aggiornamento delle tecnologie adottate”. Proprio in tema di tecnologie, il ciclo più efficiente, chiarisce Massarutto, è quello combinato, che associa la produzione elettrica a quella termica e che, spiega, “consentirebbe ad esempio in molte parti del Paese di spegnere le caldaie a metano e passare al teleriscaldamento riducendo consumi ed emissioni”. Certo, tolte diossine, metalli pesanti e polveri sottili, resta la CO2 che anche gli impianti di incenerimento più avanzati continuano a sparare in atmosfera in grandi quantità. Il principale punto di criticità per chi sostiene che, sulla strada della decarbonizzazione, il fossile debba essere sostituito investendo nelle rinnovabili e non in termovalorizzatori. “È sbagliato confrontare il waste to energy con altre fonti energetiche, valutandole sulla base delle emissioni generate – sostiene Massarutto – è ovvio che da quel punto di vista il solare e l’eolico sono preferibili all’incenerimento. Il problema però è che i rifiuti non li produciamo perché ci piace utilizzarli per produrre energia. Li produciamo e basta. Qualcosa dovremo pur farcene, e trasformarli in energia è meglio che smaltirli in discarica, che dal punto di vista della CO2 è una soluzione di gran lunga peggiore. Il waste to energy – chiarisce – non è l’alternativa al riciclo, né tanto meno ai pannelli solari. È l’alternativa alla discarica”.