Pensate a che mondo sarebbe se ciascuno di noi azzerasse la produzione di rifiuti. E’ questa la parabola del “zero waste” all’italiana che professa la religione del “tutto è riciclabile”. Purtroppo, però, si tratta di un mondo ideale ben lontano dalla realtà. Se ne sono accorti persino a San Francisco, in California, che ha sposato questa filosofia da ormai quasi 25 anni: l’obiettivo, fissato al 2020, era quello di arrivare alla chiusura della discarica di Vacaville.
All’alba del 2018, però, è necessario correggere il tiro perché la modernissima San Francisco avrebbe fallito il suo obiettivo se si tiene conto degli ultimi dati. Nel 2016 il limite del conferimento dei rifiuti urbani in discarica era di circa 260.000 tonnellate. Invece, la discarica di Vacaville ne ha accolti più di 400.000. Lo stesso è successo per l’anno appena trascorso. “Manteniamo il nostro impegno a zero sprechi, ma siamo realistici riguardo alle sfide“, ha dichiarato qualche mese fa il portavoce del Dipartimento dell’Ambiente Peter Gallotta.
E diversamente da quanto si pensi in Italia, in California lo slogan “zero waste” è legato alla riduzione degli sprechi. Quindi non solo per demonizzare inceneritori e discariche, di cui anche nella modernissima America non si può fare a meno.
“Diciamo che è una tendenza culturale – spiega Daniele Fortini, presidente di Geofor – che tende ad affermare l’idea che non si deve sprecare nulla, sprecare energia, sprecare materia, sprecare ambiente. Che si deve risparmiare usando correttamente in modo sostenibile le risorse del pianeta fino ad arrivare al punto che anche i rifiuti quindi tutto cio che noi scartiamo possano essere recuperati e restituta nuova vita. Da questo a farne un modello gestionale cioè un’applicazione logistica, industriale, organizzativa ed economica ce ne corre molto”.
Si tratta dunque di una declinazione del concetto “rifiuti zero” diversa da quella italiana. Questo non vuol dire, però, che non si possano creare modelli virtuosi ed efficienti di gestione dei rifiuti.
“E’ possibile – continua Fortini – immaginare che si possa essere liberati dai rifiuti e quindi sviluppando delle politiche integrate di raccolta differenziata, recupero di materia, uso e recupero per via energetica dei rifiuti non riciclabili e inviando all’interramento percentuali di rifiuti dei quali non si può né recuperare la materia, né recuperare energia. E’ un percorso piuttosto lungo e per nulla semplice ma è possibile che dal punto delle tecnologie disponibili è possibile immaginare che quest’orizzonte dell’economia circolare e quindi dello zero waste è possibile“.
Bisogna specificare, infatti, che anche le attività di riciclo a livello industriale producono rifiuti che possono percorrere solo due sentieri: la discarica o l’inceneritore. Basti pensare ad aziende come Fater group che si occupa di dare nuova vita ai pannolini, simbolo per eccellenza dell’usa e getta. Ebbene, da quel complesso processo di riciclo si ricavano sì polimeri e cellulosa ma allo stesso modo si producono scarti che necessitano di essere smaltiti. E poi ci sarebbe un altro aspetto fondamentale sul quale si deve soffermare la nostra attenzione: la differente disciplina che regola il modo dei rifiuti.
“Nei rifiuti urbani o assimilati – conclude il presidente – agli urbani ormai esiste solo un sistema di calcolo a cui i paesi fanno riferimento. Si considerano rifiuti urbani i rifiuti non pericolosi prodotti dalle famiglie e dalle attività commerciali comprese nel territorio urbano. Negli Stati Uniti sono considerati rifiuti tutti quelli prodotti entro i confini della città. Vale a dire: un’automobile da rottamare è considerata un rifiuto urbano, le macerie della demolizione di un grattacielo sono considerate un rifiuto urbano, cosa che da noi non è possibile né in Italia né in Danimarca eccetera. Questo fa sì che la produzione media dei rifiuti all’anno procapite in Europa è di 500 kg, perché i nostri rifiuti sono gli scarti della mensa, le cose di cui ci liberiamo ecc. Nella città di San Francisco la produzione di rifiuti urbani è di 2600gk rifiuti all’anno”.
In ultimo c’è la questione dell’export. Recology, la società che gestisce la spazzatura in città, in un comunicato annuncia le nuove restrizioni imposte dalla Cina all’import di rifiuti e anche l’abbassamento delle percentuali di impurità che questi ultimi devono contenere per essere accettati. Secondo l’azienda, però, non ci sarebbe nulla di cui preoccuparsi. Perché “molti dei nostri clienti – si legge nel comunicato – hanno già un interesse ad aiutare a ordinare meglio i materiali. Quando separiamo bucce di banana da fondi di caffè assicuriamoci che la carta sporca non tocchi quella da riciclare. Questo ci aiuterò a soddisfare i nuovi requisiti di qualità cinesi”. Tutto ciò equivale a dire: “Cari concittadini, fate bene la raccolta differenziata altrimenti la Cina non accetterà più la nostra carta e dovremmo mandarla in Vietnam a un costo nettamente superiore”.
Così scatta la riflessione. Qual è l’esatto significato dell’espressione zero waste? Non produrre rifiuti in nessun caso oppure produrli ma smaltirli in un posto del mondo ben lontano dai nostri confini geo politici? Per meglio dire, zero waste significa non gettare nulla nella mia pattumiera o gettare i miei rifiuti nella pattumiera del mio vicino di casa?