Un quadro normativo incompleto, poche infrastrutture industriali, ancora troppa permeabilità alle infiltrazioni criminali. Tre falle che impediscono al mondo del riutilizzo di sviluppare appieno le sue potenzialità. Eppure i beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani superano le 600mila tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti. Un piccolo tesoro sprecato. Mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati con un danno di circa 60 milioni di euro l’anno di costi di smaltimento, senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano. Secondo Utilitalia e Occhio del Riciclone, autori del Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018, molte sono le iniziative che possono essere messe in campo per valorizzare adeguatamente questa risorsa, dalle raccolte dedicate ai centri di riuso interni o adiacenti ai centri di raccolta in grado di intercettare i beni durevoli riutilizzabili. Ma al di là dei sistemi di intercettazione, sono necessari impianti di ”preparazione per il riutilizzo” che funzionino su scala industriale.
Attraverso un’autorizzazione al trattamento, un impianto può ricevere rifiuti provenienti dai centri di raccolta comunali e dalle raccolte domiciliari degli ingombranti e reimmetterli in circolazione dopo igienizzazione, controllo ed eventuale riparazione. E’ successo in provincia di Vicenza dove il progetto europeo Prisca ha implementato un impianto capace avviare a riutilizzo circa 400 tonnellate l’anno di rifiuti provenienti da centri di raccolta, raccolte di ingombranti e servizi di sgombero locali. Ma per strutturare la filiera mancano i Decreti Ministeriali che dovrebbero mettere in chiaro le procedure semplificate per compiere questo tipo di trattamento. E poi, spiega Pietro Luppi, direttore del Centro di Ricerca Occhio del Riciclone, “bisogna insistere sulla professionalizzazione e sulla pianificazione, nella coscienza che il riutilizzo non è un gioco ma un’enorme opportunità per generare sviluppo locale e risultati ambientali”.
Qualche numero sul mondo dell’usato. In Italia si contano circa 2.000-3.000 negozi in conto terzi, una formula commerciale praticata soprattutto al Nord e al Centro dove è presente circa un negozio ogni 31.000 abitanti, mentre al Sud se ne conta uno ogni 87.000. I mercatini che ospitano commercianti ambulanti sono invece almeno 550, senza contare quelli informali o abusivi: 337 al Nord, 152 al Centro e 61 al Sud. Il totale degli operatori ambulanti dell’usato è difficile da calcolare ma si presume si aggiri tra le 50.000 e le 80.000 unità. Nove Regioni (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo e Campania) hanno incluso nella loro pianificazione ambientale l’avvio di Centri di Riuso da affiancare ai Centri di Raccolta dei Rifiuti Urbani, ma in questi anni tali esperienze non sono mai decollate. Eppure non mancano gli esempi positivi, come il progetto ‘‘Cambia il finale” di Hera (la multiutility leader in Emilia-Romagna) che è riuscita a riutilizzare 530 tonnellate di beni durevoli in un anno a fronte di un bacino di circa 2 milioni di abitanti, coinvolgendo 25 Onlus e un centinaio di soggetti svantaggiati. ”Le aziende di igiene urbana – sottolinea Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia – svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare. Sempre più spesso, infatti, non si limitano a gestire i Rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative che, come nel caso del riutilizzo, alimentano filiere al alto valore aggiunto”.
Al momento, nel nostro Paese, le filiere degli indumenti usati sono le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state infatti raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% delle quali è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento). Ma il potenziale di riutilizzo della frazione tessile in realtà è molto più elevato: in presenza di azioni capaci di comunicare la finalità solidale delle raccolte e la trasparenza delle filiere, il risultato potrebbe raddoppiare superando i 5 kg di raccolta ad abitante. ”Chi dona abiti usati consegnandoli nei contenitori stradali – evidenzia Alessandro Strada di Humana People to People Italia – lo fa con intenzioni solidali nell’84% dei casi, e ciò dimostra come il cittadino chieda che le considerazioni di carattere sociale trovino spazio all’interno degli affidamenti del servizio di raccolta differenziata e recupero della frazione tessile”. Eppure non mancano le criticità che spaziano dai reati ambientali all’infiltrazione mafiosa: gli operatori sani hanno sollevato il problema chiedendo strumenti di controllo più rigorosi e criteri di affidamento del servizio più attenti al funzionamento delle filiere. Utilitalia, Rete ONU e centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno aperto un Tavolo di confronto con il settore per individuare linee guida finalizzate a prevenire tali criticità.