Sono più di mille i sistemi di tariffazione puntuale attivi, in crescita ma pari ad appena il 12% dei Comuni. Per promuovere la diffusione dei sistemi PAYT serve contrastare la frammentazione della governance. Anche puntando sul contributo dell’autorità di regolazione Arera
Secondo Ispra, nel 2020, anno più duro della pandemia, per la prima volta la diffusione della tariffa puntuale ha superato i mille comuni (fermandosi a quota mille e uno, per la precisione), in aumento sensibile rispetto agli 872 censiti l’anno prima. Cresce insomma il numero delle amministrazioni che hanno scelto di slegare il calcolo della Tari dai classici (e controversi) parametri basati sulla superficie degli immobili e sul numero di occupanti per agganciarlo alla effettiva condotta dell’utenza, misurata dal gestore del servizio grazie a supporti specifici come cassonetti intelligenti o sacchetti codificati: più rifiuto indifferenziato si produce e più salata sarà la tariffa. “È un tariffa giusta, per il metodo che ne sta alla base – spiega Gaetano Drosi, amministratore di Softline ed esperto di sistemi di tariffazione puntuale – ovvero far pagare un servizio sulla base dell’utilizzo effettivo che se ne fa”. Oltre a introdurre un principio di equità nel rapporto tra cittadini, gestori del servizio pubblico e amministrazioni locali, la Tarip ha però anche il merito di premiare e incentivare comportamenti virtuosi, a partire dalla raccolta differenziata, che nei Comuni censiti da Ispra supera infatti l’82%. E anche la produzione di rifiuto residuo è nettamente inferiore: secondo le analisi condotte da IFEL nel 2019 quasi due terzi dei comuni in tariffa puntuale producevano meno di 100 kg pro capite di residuo l’anno.
Al momento però, dice sempre Ispra, la diffusione della tariffa puntuale sul territorio nazionale copre il 12% appena dei Comuni italiani, e quasi tutti a Nord. Perché? “La maggior parte dei Comuni passati in tariffa puntuale non lo ha fatto in maniera singola ma in forma aggregata – spiega Drosi – cosa che consente di superare in maniera più agevole le difficoltà legate alla progettazione, all’organizzazione e al costo di un sistema puntuale”. Che richiede una attenta pianificazione della logistica, investimenti in comunicazione ma anche in tecnologia, dai lettori di codice RFID ai mastelli microchippati, passando per più sofisticati sistemi di pesatura diretta dei rifiuti. In ogni caso, “i Comuni da soli fanno più fatica, oltre ad essere più spaventati dalla novità”, dice Drosi. E di Comuni soli, in Italia, ce ne sono ancora tanti. Secondo Arera, lo scorso anno erano 3mila 762 gli enti territorialmente competenti responsabili della elaborazione dei piani tariffari, ma solo 60 gli enti d’ambito. Numeri che riflettono il ritardo nella costituzione degli organi di governo del ciclo in forma associata, particolarmente accentuato al Sud. Cosa che spiegherebbe anche perché l’82% delle tariffe puntuali censite da Ispra si concentri tra Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia e Piemonte, riproponendo la classica geografia di un’Italia che, sul fronte delle buone pratiche di gestione dei rifiuti, sembra destinata a restare divisa a metà.
Al Sud, sia chiaro, non mancano le esperienze positive. A partire dal Comune di Bitetto, in Puglia, dove anzi si sta sperimentando un metodo innovativo di tariffazione puntuale che al tradizionale ‘PAYT’, ‘Pay As You Throw’, cioè paga per quello che butti, associa un approccio ‘KAYT’, ‘Know As You Throw’, ovvero conosci quello che butti. Un sistema di spinte gentili che punta a migliorare i comportamenti delle utenze coinvolgendo attivamente i cittadini, anche attraverso elementi di ‘gamification’ come quiz e giochi a premi. Ma senza ricomporre la frammentazione della governance gli esempi d’avanguardia sono destinati a rimanere casi isolati. In questo scenario, il contributo dell’autorità di regolazione Arera può essere determinante. “Ad esempio – spiega Drosi – con l’introduzione di standard, che ancora mancano, non solo per gli aspetti che attengono alla tariffazione ma anche alle tecnologie di misurazione o ai passaggi da fare per introdurre il sistema”. A patto però che le regole siano di chiara lettura e che sia gli enti locali che i gestori del servizio pubblico siano messi nelle condizioni di far fronte ai costi che la loro applicazione può generare. “Il famoso ‘TQRIF’, ovvero il sistema degli standard di qualità contrattuale adottato a gennaio da Arera – dice Drosi – ha ad esempio meriti importanti, visto che per la prima volta si parla di requisiti minimi e di parametri per la misurazione dell’efficienza del servizio, che però da soli non bastano. Quando si introduce una novità che ha un costo, ed è giusto che la qualità abbia un costo, bisogna sempre controbilanciare spiegando a chi è tenuto ad adeguarsi agli obblighi come assorbire quel costo nel piano finanziario”.