Se il mondo intero guarda con trepidazione all’arrivo del 2021, con la voglia di lasciarsi alle spalle un 2020 da incubo, per gli operatori del waste management italiano, invece, l’anno che verrà non promette nulla di buono, e anzi a un 2020 da incubo potrebbe seguire un 2021 di caos. L’entrata in vigore del decreto legislativo 116 del 2020, che recepisce la nuova direttiva rifiuti contenuta nel pacchetto europeo di misure sull’economia circolare, ha introdotto infatti una nuova definizione di rifiuto urbano, allineandola ai parametri europei, per uniformare e facilitare il calcolo e la comparazione delle performance dei vari Stati membri.
Fin qui tutto bene, se non fosse per il fatto che, come spesso accade, il legislatore italiano ha deciso di andare oltre accompagnando la nuova definizione con l’eliminazione del meccanismo dell’assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani: in sostanza il decreto 116 estende lo status giuridico di rifiuto urbano a un lungo elenco di tipologie di rifiuti generati da attività produttive, commerciali e artigianali – si va dagli imballaggi alle vernici e ai detergenti – facendo venir meno parallelamente il concetto stesso di rifiuto “assimilabile” o “assimilato”. Per queste tipologie non si parlerà insomma più di rifiuti speciali “assimilati” ma di rifiuti urbani “tout court”, senza limiti quantitativi.
La misura sarà operativa dal primo gennaio 2021 ma sta già scatenando il panico tra gli operatori di settore, per un lungo elenco di motivi che proveremo qui a sintetizzare. Partendo dal nodo delle autorizzazioni e delle iscrizioni, sia quelle degli impianti che quelle delle aziende della raccolta e del trasporto. I rifiuti che prima potevano essere gestiti con un’autorizzazione al trattamento di rifiuti speciali, da gennaio necessiteranno infatti di un’autorizzazione al trattamento degli urbani, ma il tempo concesso alle aziende per adeguarsi, tenuto conto del fatto che il decreto 116 è stato pubblicato solo a metà settembre, potrebbe non essere bastato a tutti per mettersi in regola. Molti operatori, soprattutto tra quelli di minori dimensioni, rischiano insomma di vedersi tagliati fuori di netto dal mercato.
Altro nodo da sciogliere quello dei contratti di servizio in essere. L’assimilazione “tout court” non prevede al momento limiti quantitativi, cosa che potrebbe tradursi nell’aumento sensibile dei rifiuti (soprattutto imballaggi) che i soggetti titolari del servizio pubblico di raccolta saranno chiamati a gestire. Non è detto però che questi ultimi dispongano dei mezzi e delle strutture sufficienti a fare fronte alle nuove quantità, cosa che mette a rischio la continuità delle attività di raccolta. E a proposito di strutture, già si registrano criticità sul fronte dei centri di raccolta comunali, visto che il decreto ministeriale del 2008 che ne disciplina il funzionamento non è stato rivisto alla luce della nuova definizione di rifiuto urbano. Cosa che sta già creando confusione e incertezza nelle isole ecologiche di mezza Italia, soprattutto rispetto alla gestione di particolari tipologie di rifiuti, come gli scarti da piccole manutenzioni edilizie domestiche.
Ma non è finita qui, perché la nuova definizione di rifiuto urbano stravolge anche i meccanismi per la determinazione della Tari, la tariffa rifiuti, proprio all’indomani del debutto del metodo tariffario unificato. Entro il 31 dicembre di quest’anno infatti i comuni dovranno comunicare all’Arera, l’autorità di regolazione, i Piani Economico Finanziari necessari alla determinazione delle componenti della tariffa secondo il cosiddetto MTR, approvato nel 2019. Il problema è che ancora non è chiaro come faranno i Comuni a tenere conto, nei PEF che saranno consegnati ad Arera per la determinazione della Tari 2021, dei costi ulteriori a carico dei gestori del servizio pubblico che saranno generati dalle quantità crescenti di rifiuti che rientreranno nel circuito urbano, o dei mancati prelievi Tari derivanti dalle riduzioni (delle quali diremo tra poco) per le aziende che sceglieranno di affidarsi ad operatori privati piuttosto che al gestore pubblico. Il rischio in sostanza è che la Tari 2021 possa non bastare a coprire i cosiddetti “costi efficienti” del servizio.
Sempre in tema di tariffe, a meno di una tempestiva revisione dei regolamenti sulla Tari, si rischia infine di vanificare la possibilità per le aziende e le attività commerciali, prevista dalla disciplina introdotta dal decreto 116, di ottenere riduzioni attestando di aver avviato a recupero i propri rifiuti affidandosi ad operatori privati. Possibilità che, vale la pena ricordarlo, dovrebbe valere solo per le imprese che dimostrino di aver sottoscritto un contratto almeno quinquennale con un operatore autorizzato. Non proprio il massimo sul piano della libera concorrenza sul mercato.
Insomma, dal metodo tariffario alla disciplina di legge sui centri di raccolta, passando per le autorizzazioni alle imprese: la nuova definizione di rifiuto urbano introdotta dal decreto 116 avrebbe dovuto essere accompagnata in questi mesi da una imponente e capillare opera di revisione dell’intero quadro normativo che disciplina la vita degli operatori del waste management. Ai quali, a pochi giorni dall’entrata in vigore della disciplina, e nel silenzio tombale del legislatore, non resta che sperare in una proroga in extremis.