Senza impianti di riciclo, recupero e smaltimento l’Italia è costretta a esportare oltre 4 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti dalle attività industriali e manifatturiere, a un costo di circa un miliardo di euro. Senza interventi, avverte Assoambiente, il ‘capacity gap’ potrebbe arrivare a 10 milioni di tonnellate. E mettere a rischio competitività e autonomia del sistema produttivo
Nel periodo tra 2021 e 2025 l’Italia potrebbe pagare una cifra compresa tra i 3 e i 5 miliardi di euro per esportare fuori dai confini nazionali i rifiuti speciali che non possono essere trasformati in nuove materie prime o in energia a causa della mancanza di impianti. Una prospettiva che ha il sapore della beffa, nei giorni della crisi degli approvvigionamenti. E il conto sarà destinato ad aumentare di un miliardo l’anno, se non riusciremo a compiere il “salto culturale” necessario a colmare un gap che rischia di fare male alla competitività del nostro sistema produttivo, avverte Assoambiente in un report presentato oggi. Stando allo studio, nel 2019 a fronte di una produzione complessiva di 165 milioni di tonnellate, pari a 5 volte gli urbani, i rifiuti speciali gestiti, al netto di quelli generati dal settore delle costruzioni e demolizioni, sono stati 109,4 milioni di tonnellate, 65 prodotti direttamente dalle attività economiche (36 dei quali dal settore manifatturiero) e 44 generati da attività di trattamento di rifiuti (16 dei quali urbani). Oltre 11mila gli impianti operativi, concentrati per più del 55% nelle Regioni del Nord Italia, con un rapporto di 1 a 50 tra impianti di recupero energetico e incenerimento (198) e impianti di riciclo (6mila 839) e con oltre 3mila impianti di stoccaggio distribuiti in maniera uniforme sul territorio. Segno che un po’ ovunque, da Nord a Sud, c’è bisogno di spazio per ‘parcheggiare’ i rifiuti prodotti, nell’attesa di trovare loro un’adeguata collocazione sul mercato.
Collocazione che spesso è lontana dal luogo di produzione. Se da un lato infatti spicca un tasso nazionale di recupero energetico e di materia del 65%, dall’altro risalta invece il dato sui conferimenti fuori regione: nel 2019 circa 27 milioni di tonnellate sono state infatti trattate in un territorio diverso da quello di produzione, 4,3 delle quali sono finite all’estero. Stando al report, la principale tipologia di rifiuti esportata, pari al 46% del totale, è rappresentata da rifiuti derivanti dal trattamento di rifiuti, di cui oltre 550mila tonnellate di derivazione urbana, inclusi sovvalli dell’indifferenziato e scarti della raccolta differenziata e del riciclo. Destinazione principale la Germania, con circa 800mila tonnellate, seguita da Austria, Ungheria e Francia. Del totale esportato, il 63% è stato avviato a riciclo, il 23% a incenerimento o recupero energetico, il 14% a smaltimento in discarica. “I volumi di rifiuti speciali annualmente esportati sono un forte segnale di carenza impiantistica, particolarmente preoccupante se si considera la previsione di crescita industriale stimata per i prossimi anni”, ha commentato Marco Steardo, presidente della sezione rifiuti speciali di Assoambiente. Secondo lo studio, senza una pianificazione strategica degli investimenti, il ‘capacity gap’ è destinato ad aumentare fino a raggiungere un fabbisogno impiantistico a regime superiore alle 10 milioni di tonnellate annue e un fabbisogno cumulativo nel periodo tra 2021 e 2025 di 34 milioni di tonnellate.
Un gap che rischia di danneggiare la competitività delle imprese, che saranno costrette a pagare sempre di più per gestire sempre più lontano i propri scarti, ma anche di impoverire il Paese nel suo complesso. Ipotizzando una tariffa di recupero o smaltimento compresa tra i 100 e i 150 euro, il “valore economico trasferito al di fuori del ‘Sistema Italia’” spiega Assoambiente, è quantificabile complessivamente nel periodo 2021-2025 in un range tra i 3 e i 5 miliardi di euro, destinato successivamente a crescere nell’ordine di 1-1,5 miliardi l’anno. Tutto questo in aggiunta al valore ceduto all’estero in termini di fatturato, gettito fiscale, occupazione, così come di materia da riciclo e di energia. La sola mancata produzione di energia generabile dai rifiuti che dovranno essere destinati a impianti di termovalorizzazione esteri è stimabile fra 330mila e 400mila MWh all’anno, “che per un paese come l’Italia, che importa energia dall’estero – spiega Assoambiente – si traduce in un costo annuo a valori di mercato fra 40 e 60 milioni di euro“.
Sempre che all’estero continuino ad accettare i nostri rifiuti, cosa per nulla scontata visto che le capacità di assorbimento “cross border” sono “tutte da verificare – spiega Assoambiente – poiché strettamente legate alle politiche di gestione dei rifiuti che gli altri Paesi porranno in essere nel prossimo futuro”. Il tema insomma, dice l’associazione, non è solo quello di tutelare la competitività delle imprese, ma di garantire l’autonomia del sistema produttivo nel suo complesso. Scongiurando il rischio che possa finire per dipendere dalla disponibilità di impianti esteri di recupero o smaltimento esattamente come oggi appare legato mani e piedi alle forniture energetiche da altri paesi, Russia in testa. La stabilità delle stesse imprese del riciclo, fiore all’occhiello del nostro Paese, spiega Assoambiente, dipende dalla disponibilità di impianti di recupero energetico o di discariche per lo smaltimento delle ‘frazioni negative’ non ulteriormente riciclabili che anche le attività di recupero di materia “inevitabilmente producono”. Impianti in assenza dei quali, si legge nel report, “le operazioni ad essi gerarchicamente preordinate, devono interrompersi”. Un danno economico che a sua volta può diventare danno ambientale, visto che ogni ingolfamento del sistema è di fatto un assist per broker, imprese e impianti ‘borderline’. “Non bisogna dimenticare le esperienze del passato, che, tristemente, ricordano quanto la mancanza di una adeguata rete di impianti abbia favorito lo smaltimento illegale soprattutto in quei territori dove il gap si fa più importante”, avverte Assoambiente.
“La realizzazione degli impianti di riciclo, di recupero di materia e di energia – ha aggiunto Steardo – deve essere adeguatamente pianificata, privilegiando la realizzazione di impianti a servizio di distretti produttivi specifici nei quali la gestione dei rifiuti si integrerebbe, producendo materie prime seconde e/o energia utili al distretto stesso”. La proposta di Assoambiente è per una strategia nazionale per la gestione dei rifiuti industriali che supporti la realizzazione delle infrastrutture – siano esse di riciclo, di recupero energetico o di smaltimento finale – con un quadro normativo rigoroso e facilmente applicabile e uno snellimento della burocrazia e dei processi autorizzativi. Occorre un ‘salto culturale’ – si legge nel report – perché tutti gli stakeholder giungano alla consapevolezza di quanto sia importante sotto il profilo ambientale, sociale ed economico che la gestione dei rifiuti speciali possa avvenire, nel concreto, in un clima che ne favorisca il consolidamento e lo sviluppo, affinché alle comunità non venga negato il diritto di vivere in modo moderno e sostenibile”.