Nel 2019 il 70% degli scarti generati dalle attività industriali e manifatturiere è stato avviato a recupero di materia. Più di 1300 le aziende che usano materiali riciclati nei propri cicli produttivi. Valeria Frittelloni: “È il segnale che la linea sta curvando, che il paradigma si sta spostando dall’economia lineare all’economia circolare”
Resta ancora lontano il disaccoppiamento tra Pil e produzione di rifiuti, ma nel percorso verso modelli sempre più circolari di sviluppo il sistema economico italiano continua a consolidare la propria capacità di reimpiegare materia recuperata dagli scarti. Il 69% dei rifiuti speciali prodotti nel 2019 da imprese piccole e medie, industrie e attività commerciali è stato infatti avviato a operazioni di riciclo, mentre solo il 7,3% risulta smaltito in discarica. Lo dimostrano i dati del ventesimo rapporto sulla produzione e gestione dei rifiuti speciali curato da Ispra e Snpa e presentato questa mattina in diretta su Ricicla.tv. In crescita la produzione, di pari passo con quella del Pil, con 10,5 milioni di tonnellate in più rispetto all’anno precedente che portano il totale a 154 milioni di tonnellate. Numeri che indicano come sia ancora lunga la strada da percorrere per rendere sempre più efficienti i nostri cicli industriali, sia in termini di risorse consumate, a parità di produzione, sia in termini di rifiuti generati a valle dei processi. La buona notizia però è che una quota rilevante dei rifiuti prodotti dal sistema economico torna ad alimentare quegli stessi cicli produttivi.
“Quasi la metà di tutti gli impianti autorizzati al trattamento di rifiuti speciali effettua operazioni di recupero – spiega Valeria Frittelloni, responsabile dell’ufficio rifiuti di Ispra – sono 4mila 619 a livello nazionale. Un altro dato significativo è che abbiamo censito mille trecento impianti industriali che nel loro ciclo produttivo effettuano operazioni di recupero di materia dai rifiuti. Questo significa che il sistema industriale, da semplice produttore del rifiuto, si colloca sempre più anche nella fase di chiusura del ciclo del riciclo. È il segnale che la linea sta curvando, che il paradigma si sta spostando dall’economia lineare all’economia circolare”.
E la ‘linea’ curva così tanto che per alcune filiere la produzione interna di rifiuti non basta ad alimentare i cicli industriali, costringendo le imprese a importare scarti dall’estero. Come nel caso delle acciaierie, che in Italia basano l’80% della propria produzione proprio sulla trasformazione del rottame di ferro. “Su 7 milioni di tonnellate importate nel 2019 – spiega Frittelloni – la gran parte è costituita da rottame, che proviene principalmente dalla Germania e che finisce ad alimentare le acciaierie del Nord Italia”. Proprio la Germania è a sua volta la destinazione principale per il nostro export, soprattutto di rifiuti pericolosi: più di 500mila tonnellate nel solo 2019, rappresentate per la maggior parte da ‘rifiuti derivanti da trattamenti termici’ , ovvero le ceneri pericolose del filtraggio fumi negli impianti di incenerimento, o da rifiuti contenenti amianto. “Spesso sento dare un’accezione negativa alle dinamiche dell’import-export – aggiunge – ma non è così: in un mercato comune è giusto che anche i rifiuti, come le merci, possano viaggiare e trovare la collocazione più idonea”. Da segnalare però anche le 1,7 milioni di tonnellate di rifiuti generati dal trattamento dei rifiuti, principalmente urbani, esportate oltreconfine: in Turchia (85mila tonnellate di plastica e gomma) ma anche in Austria e Portogallo (rispettivamente 150mila e 79mila tonnellate di scarti dell’indifferenziato), a sottolineare la scarsa capacità del sistema nazionale di smaltire o recuperare le frazioni meno nobili.
A contribuire per il 45,5% al totale dei rifiuti prodotti a livello nazionale sono gli scarti provenienti dal settore delle costruzioni e demolizioni, oltre 70 milioni di tonnellate, che con un tasso di riciclo del 78,1% si collocano al di sopra del target europeo vincolante del 70% da raggiungere entro il 2020. Il problema però è che buona parte di tutto quanto viene riciclato stenta ancora a trovare applicazioni ‘nobili’. “Gran parte di questi rifiuti trova applicazione nella realizzazione di sottofondi stradali – spiega Frittelloni – che è un utilizzo assolutamente positivo, ma serve spingere verso applicazioni avanzate nel mondo dell’edilizia e delle infrastrutture, soprattutto alla luce del fatto che si tratta di settori caratterizzati da elevati livelli di consumo di materie prime.”.
Per un settore che raggiunge e supera il target Ue ce n’è un altro che invece da anni sconta un ritardo apparentemente incolmabile, quello dei veicoli a fine vita. Perché se con il suo 84,2% l’Italia si colloca a un passo dal target europeo di riciclo dell’85%, risulta lontano di ben dieci punti l’obiettivo del 95% di recupero complessivo, che al riciclo dovrebbe sommare il recupero energetico. “I nostri impianti di autodemolizione e frantumazione hanno trattato più di un milione di tonnellate di veicoli fuori uso – dice Valeria Frittelloni – siamo leggermente in ritardo sul riciclo sebbene tutto sommato in linea, ma la quota parte che manca è quella del recupero energetico. Mancano impianti autorizzati a ricevere parte dei rifiuti prodotti dalla filiera, come il cosiddetto ‘fluff da frantumazione’, un rifiuto misto ad elevato potere calorifico che potrebbe fare la sua parte nel raggiungimento del target di recupero complessivo”.
È da questa istantanea, spiega Ispra, che occorrerà prendere le mosse per pianificare la messa in opera degli investimenti legati al Piano nazionale di ripresa e resilienza, che nelle intenzioni dell’Ue dovrà servire proprio ad accelerare il processo di transizione ecologica dei nostri sistemi produttivi. “Circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti speciali finiscono ancora in discarica – commenta il direttore generale di Ispra Alessandro Bratti – c’è da lavorare per migliorare le prestazioni del nostro sistema, che restano comunque ottime. Occorre potenziare e migliorare
l’impiantistica per raggiungere gli obiettivi europei e per proporci sempre di più come leader a livello europeo nell’economia circolare”.
Ma c’è anche da evitare che l’appuntamento con i fondi europei si accompagni a un abbassamento dei livelli di tutela ambientale in nome della necessità di rispettare la scadenza per il completamento delle opere fissata al 2026. “In tanti si leccheranno i baffi di fronte alla quantità di risorse che stanno arrivando – spiega Bratti – ci sono business illegali in questo Paese che, per quanto rappresentino una quota minoritaria, sono comunque presenti e vanno contrastati. Anche perché drenano risorse importanti alle imprese sane. Quindi – spiega – dobbiamo sicuramente accelerare e dare risposte all’altezza degli obiettivi che abbiamo davanti, ma senza depotenziare o tanto meno trascurare la funzione fondamentale di monitoraggio e controllo esercitata dalle agenzie del Sistema nazionale per la protezione ambientale. Se vogliamo un sistema pubblico che sappia da un lato tutelare le imprese sane e dall’altro offrire garanzie al cittadino, dicendo ad esempio che tutti gli impianti, anche quelli più innovativi, sono sicuri perché controllati e monitorati, è questa la vera sfida che abbiamo davanti”.