Dopo oltre dieci anni di attesa è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero dell’Ambiente che disciplina le attività di preparazione per il riutilizzo in forma semplificata. Ma non mancano i dubbi, a partire da quelli sul rapporto con le discipline su end of waste e tracciabilità dei rifiuti
Restituire valore a oggetti che potrebbero non aver ancora esaurito la propria utilità, trasformandoli così, anche solo in parte, da rifiuti a prodotti pronti per essere riutilizzati. È l’obiettivo del nuovo decreto del Ministero dell’Ambiente che, dopo oltre dieci anni di attesa, punta a regolamentare l’esercizio delle attività di preparazione per il riutilizzo in forma semplificata. Introdotta nell’ordinamento italiano nel 2010 con il recepimento della direttiva quadro rifiuti del 2008, l’attività di preparazione per il riutilizzo (seconda solo alla prevenzione nella gerarchia Ue) era da allora in attesa di un chiaro quadro regolatorio, in assenza del quale “gli unici centri di preparazione per il riutilizzo sono autorizzati con provvedimenti regionali e caratteristiche operative differenti, nonché con tempistiche lunghe e quindi disincentivanti”, aveva commentato nelle scorse settimane la vice ministro Vannia Gava, annunciando l’imminente adozione del provvedimento.
Il decreto, che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale nei giorni scorsi e che entrerà in vigore il prossimo 16 settembre, definisce tra l’altro le modalità operative, le dotazioni tecniche e strutturali, i requisiti minimi di qualificazione degli operatori necessari per l’esercizio delle operazioni di preparazione per il riutilizzo. Ma anche le quantità massime di rifiuti in ingresso nelle strutture autorizzate e le tipologie ammesse. A partire dai rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, che rappresentano la categoria che meglio può prestarsi alle attività di preparazione per il riutilizzo, anche se restano esclusi i raee aventi caratteristiche di pericolo o contenenti gas ozono lesivi, così come i veicoli a fine vita, le pile e gli accumulatori o i rifiuti destinati alla rottamazione sulla scorta di incentivi fiscali. Inclusi nell’elenco dei rifiuti ammessi, tra gli altri, biciclette e carrozzine, mobili, attrezzature sportive, abbigliamento e accessori.
Le operazioni, che dovranno riguardare almeno un’attività tra controllo, pulizia, smontaggio e riparazione, dovranno essere condotte in centri che rispondano ai requisiti specifici di sicurezza, tutela ambientale e idoneità tecnica previsti dal decreto. Dal canto loro gli operatori, “ad esclusione delle persone svantaggiate impiegate in percorsi di inserimento lavorativo”, dovranno presentare almeno uno dei requisiti tecnico professionali richiesti, tra diploma, attestato di qualifica professionale ed esperienza pregressa nel settore per un periodo non inferiore a due anni. Le operazioni potranno essere avviate decorsi novanta giorni dalla presentazione della comunicazione di inizio attività, entro i quali l’amministrazione territorialmente competente dovrà verificare i requisiti previsti dal regolamento. Nel caso di attività di preparazione per il riutilizzo di raee, l’avvio dell’esercizio è subordinato alla visita preventiva da parte dell’amministrazione competente, da effettuarsi entro sessanta giorni dalla data della comunicazione.
L’auspicio del ministero è che il provvedimento, a lungo atteso dagli operatori di settore, possa promuovere “una maggiore intercettazione di quei flussi di rifiuti, ad esempio i raee, che possono riacquistare nuova vita e valore sul mercato” aveva detto Gava, ma secondo gli osservatori rischia di rivelarsi un’arma spuntata, visti i limiti stringenti a qualità e quantità dei rifiuti in ingresso e i profili di criticità che potrebbero complicarne l’applicazione. Come l’attuale esclusione delle attività di preparazione per il riutilizzo dalla disciplina di legge per la cessazione della qualifica di rifiuto. “Il decreto non comprende tante tipologie di rifiuti che potrebbero essere preparati per il riutilizzo – osserva Tiziana Cefis, consulente ambientale per lo studio TeA Consulting – è quindi evidente che se non lo si può fare in forma semplificata, occorre intraprendere la procedura autorizzativa ordinaria. Che oggi gli enti territoriali interpretano spesso come una procedura end of waste ‘caso per caso’“. Con un appesantimento dell’iter per il rilascio dei nulla osta che diventa un vero e proprio disincentivo ad aprire centri di preparazione per il riutilizzo.
Un ulteriore profilo di criticità potrebbe poi sorgere sul piano degli adempimenti per la tracciabilità. Stando al decreto, infatti, i centri di preparazione per il riutilizzo non sarebbero obbligati alla tenuta del registro di carico e scarico, bensì di uno “schedario” in tre sezioni (conferimento, gestione e cessione) da conservare per cinque anni e da integrare con le eventuali copie dei formulari di identificazione dei rifiuti in ingresso e in uscita. Un regime agevolato, pensato per snellire la burocrazia a carico dei gestori dei centri, che potrebbe però generare dubbi e complicazioni, vista la natura piuttosto generica delle indicazioni sulla tenuta dello “schedario” e il rischio di un non ottimale allineamento con la disciplina sulla tracciabilità dei rifiuti. “La documentazione diventa complicata e frammentaria – osserva Cefis – e mi chiedo come tutto questo si coniugherà con il sistema informatico RenTRi, quando questo arriverà”. La sensazione è che a valle dell’attesa ultradecennale “la montagna abbia partorito un topolino – commenta Cefis – un piccolo passo in avanti nell’ottica dell’economia circolare, ma c’è ancora tanto da fare”.