Il recupero energetico come tassello chiave nel quadro nazionale di gestione dei rifiuti, indispensabile al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi europei su economia circolare e decarbonizzazione, ma soprattutto come pratica non dannosa per l’ambiente e la salute umana. Non più di un’auto a benzina o di una stufa a pellet, se svolta nel rispetto dei migliori standard tecnici e tecnologici di settore. È il quadro che viene fuori dal Libro Bianco col quale Utilitalia prova a fare chiarezza sulla più avversata tra le tecnologie di trattamento dei rifiuti, l’incenerimento con recupero energetico. Diffusamente utilizzato in Europa, dove sono operativi 492 impianti, disciplinato dalle Best Available Techniques dell’Ue ma in Italia considerato ancora oggi da tantissimi pratica inquinante e nemica del riciclo. È davvero così? No, dice Utilitalia. «Non c’è contrapposizione tra raccolta differenziata e recupero energetico – dice Renato Boero, Coordinatore Commissione Impianti Utilitalia – e i numeri anzi dimostrano che la sola differenziata non basterà a raggiungere i target Ue sull’economia circolare. Ma i dati che abbiamo raccolto dimostrano anche e soprattutto quanto il recupero energetico possa contribuire al taglio delle emissioni climalteranti e quanto sia marginale l’impatto ambientale e sanitario generato degli impianti dotati delle migliori tecnologie sui territori circostanti».
E allora andiamo con ordine, partendo proprio dai dati sul rilascio di inquinanti in atmosfera. «Oggi le emissioni medie degli impianti italiani sono largamente comprese all’interno degli intervalli indicati nelle recenti BAT emanate dalla Commissione Ue, in alcuni casi addirittura inferiori», spiega Stefano Cernuschi, professore di ingegneria civile e ambientale al Politecnico di Milano, che ha collaborato alla redazione del “white book” di Utilitalia, nel quale si riporta come sul totale degli inquinanti emessi da attività industriali a livello nazionale, registrati nell’archivio Ispra riferito al 2017, solo una quota minima sia riferibile al recupero energetico da rifiuti: il 2,70% per il piombo, lo 0,02% per pm10 e lo 0,20% per le diossine, che per il 40% derivano invece dal settore domestico, commerciale e istituzionale.
«Sulla base dei dati disponibili, non c’è alcuna evidenza che un impianto di incenerimento moderno e gestito bene possa rappresentare un rischio reale per la salute umana» aggiunge l’epidemiologo Francesco Lombardi, dell’Università di Tor Vergata. Anche perché se si confrontano i fattori di emissione, cioè la quantità media di inquinanti generati dalle varie sorgenti, viene fuori che per il pm10, ad esempio, negli inceneritori che rispettano le BAT l’intervallo va da 0,25 a 11,4 grammi per tonnellata, mentre per i veicoli a benzina si va da 352,7 a 568,2, e per il riscaldamento domestico e le stufe a pellet addirittura da 7mila a 23mila grammi per tonnellata. «Volendo semplificare – dice Cernuschi – possiamo dire che le emissioni per ogni 100 kg inceneriti equivalgono a quelle generate da un’auto di piccole dimensioni per 390 km o da un camion ogni 3 km percorsi».
Camion come quelli che ogni giorno portano su e giù – soprattutto su – i rifiuti non riciclabili che molte regioni italiane non riescono ancora a smaltire. Secondo Utilitalia, i 37 impianti di trattamento operativi a livello nazionale nel 2019 hanno trattato 6,3 milioni di tonnellate, per il 73% incenerite al Nord, dove sono finite 690mila tonnellate provenienti dal Sud e isole (altre 150mila tonnellate sono state esportate all’estero). Senza dimenticare che l’Italia resta il terzo Paese dell’Ue per quantità smaltite in discarica con oltre 6 milioni di tonnellate, il 21% del totale. Alla luce di questo scenario, spiega Utilitalia, per raggiungere gli obiettivi europei al 2035 del 65% di riciclo e del 10% massimo di avvio a discarica servirà ulteriore capacità di trattamento per 150mila tonnellate al Nord, 1,2 milioni di tonnellate al Centro e 800mila nel Sud peninsulare, unite a 600mila tonnellate per la Sicilia e 100mila per la Sardegna. Anche perché all’aumento delle quantità riciclate corrisponderà quello degli scarti dei processi di trattamento, molti dei quali non hanno destinazione se non il recupero energetico o la discarica: gli scarti del riciclaggio delle frazioni organiche, ad esempio, ma anche le 127mila tonnellate di scarti del riciclaggio della plastica, 300mila tonnellate del riciclaggio della carta e 180mila tonnellate del riciclaggio dei veicoli a fine vita generate nel 2019.
Senza dimenticare che all’orizzonte ci sono anche gli ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione del Green Deal europeo: taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 e neutralità carbonica al 2050. Anche su questo fronte il contributo del recupero energetico potrebbe essere rilevante. «Le discariche europee sono responsabili del rilascio in atmosfera di 140 milioni di tonnellate di co2 equivalente – spiega Fabio Poretti, responsabile scientifico di CEWEP – spostando i rifiuti verso il recupero di materia e di energia otterremmo un risparmio netto di 153 milioni di tonnellate, derivante sia dalle minori emissioni delle discariche che dalla sostituzione dei rifiuti ai combustibili fossili per la produzione di energia». Un mix che «solo in Italia ha garantito nell’ultimo anno un taglio di oltre 6 milioni di tonnellate di co2 equivalente» ricorda Renato Boero di Utilitalia, con la produzione di 4,6 milioni di MWh di energia elettrica e 2,2 milioni di MWh di energia termica, in grado di soddisfare il fabbisogno di circa 2,8 milioni di famiglie.
Ma cosa ne pensa la Commissione Europea, che secondo molti chiederebbe ai Paesi dell’Ue di abbandonare il ricorso all’incenerimento sulla strada verso l’economia circolare? «Il doppio appuntamento al 2035 ci obbliga a considerare tutti i sistemi alternativi alla discarica – dice Mattia Pellegrini, capo dell’unità gestione rifiuti della direzione generale ambiente della Commissione Ue – cosa che per l’Italia significherà soprattutto estendere all’intero territorio nazionale i sistemi che in molte regioni del Nord hanno consentito il raggiungimento di livelli d’eccellenza europei sia sul piano della differenziata e dell’avvio a riciclo che su quello della riduzione dei conferimenti in discarica». Parole prudenti, ma che a voler leggere tra le righe sembrano riconoscere che le cose funzionano meglio dove al riciclo si affiancano impianti di recupero energetico alternativi alle discariche. Come in Lombardia ed Emilia-Romagna, le più dotate di impianti di incenerimento, dove risulta già centrato il target del 10% di smaltimento fissato al 2035. Attenzione, avverte però Pellegrini, «è assolutamente da escludere che i fondi del Next Generation Eu possano essere utilizzati per finanziare nuovi impianti di incenerimento, visto che dovranno essere indirizzati a progetti di riduzione dei rifiuti e tecnologie innovative di riciclo».
«La cosa era ben nota – sottolinea il vice presidente di Utilitalia Filippo Brandolini – ma ciò non toglie che occorra avviare una riflessione, probabilmente a livello europeo, ma sicuramente a livello italiano. Perché è chiaro che l’apporto finanziario è rilevante anche per questa tipologia di impianti, ma prima ancora dei finanziamenti è necessario che il decisore politico, in Italia e in Ue, contribuisca soprattutto a costruire le condizioni e precondizioni necessarie a favorire la gestione industriale dei rifiuti, facilitando la realizzazione di impianti e semplificando gli iter autorizzativi, ma anche ricostruendo il confronto con le popolazioni locali, per dissipare timori e i pregiudizi su tecnologie impiantistiche come quelle per il recupero energetico. Se questo non verrà fatto, gli obiettivi al 2035, con buona pace di tutti e soprattutto di un certo ambientalismo di maniera, non potranno essere raggiunti»