Nel 2021, anno dell’istituzione della tassa europea sugli imballaggi in plastica non riciclati, gli Stati membri hanno versato nelle casse dell’Ue 5,9 miliardi di euro, sottostimando di 1,4 miliardi di chili il calcolo delle quantità non avviate a riciclo
Se la ‘plastic tax’ italiana ha incassato in primavera il suo settimo rinvio, quella europea è operativa dal 2021 ma la sua sembra essere stata a tutti gli effetti una falsa partenza. Secondo la Corte dei Conti dell’Ue, infatti, nel suo primo anno di applicazione il nuovo prelievo basato sul peso degli imballaggi polimerici non riciclati ha fruttato alle casse dell’Unione 5,9 miliardi di euro ma l’importo è stato sottostimato per 1,1 miliardi di euro e per riequilibrare il bilancio Ue è stato necessario compensar temporaneamente l’ammanco con altre risorse. Stando a un report degli auditor europei, infatti, nella maggior parte dei casi i dati previsionali comunicati dagli Stati membri nel 2021 sono risultati inferiori rispetto a quelli calcolati due anni dopo utilizzando i dati reali. Complessivamente, la quantità totale di rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati prevista per il 2021 si è rivelata essere di 1,4 miliardi di chilogrammi inferiore rispetto alle quantità calcolate e comunicate per tale anno nel 2023.
La natura della difformità registrata dalla Corte è sia di merito che di metodo. Sul primo fronte, infatti, pesa il fatto che la tassa – formalmente una ‘risorsa propria dell’Ue’ – sia costituita da un contributo nazionale calcolato sulla base di un importo pari a 0,80 euro per chilogrammo di rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati. Poiché i dati pertinenti sono disponibili solo a distanza di due anni, però, i contributi sono basati su previsioni che sono successivamente adeguate. Il problema vero, però, è che le previsioni degli Stati membri si sono rivelate quasi sempre sbagliate per difetto (in 22 casi su 27) e in alcuni casi anche di parecchio: in nove casi la discrepanza era superiore al 25%, mentre nel solo caso della Svezia si è superato addirittura il 50% (58,8%). Qui entra in gioco il metodo. Secondo la Corte dei Conti, infatti, “gli Stati membri non erano sufficientemente pronti all’attuazione della risorsa propria basata sui rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati” e le azioni messe in campo dalla Commissione “benché utili ai fini del miglioramento della qualità dei dati, non sono state tempestive“.
Non una stroncatura, insomma, ma quasi, per il primo cambiamento importante nel sistema delle risorse proprie dell’Ue dal 1988 a oggi. Anche se nel 2024 gli importi dovuti dagli Stati membri sono stati rivisti per integrare le quote non versate per il 2021, resta il fatto che “il metodo di calcolo di questa nuova entrata presenta ancora troppe debolezze“, come ha dichiarato Lefteris Christoforou, membro della Corte responsabile dell’audit. Nello specifico, secondo la Corte i dati utilizzati dagli Stati membri ai fini delle risorse proprie non erano comparabili né affidabili a sufficienza. In molti casi, si legge nel report, i paesi Ue “non hanno impiegato il punto di misurazione specificato nella legislazione per calcolare le quantità riciclate”, ovvero l’immissione nelle operazioni di riciclo, “né hanno fatto ricorso ai tassi di scarto medio sulla base di norme armonizzate”, visto che l’atto delegato con il quale la Commissione avrebbe dovuto definire un metodo unificato non è mai stato adottato. In più, si legge, potrebbe aver pesato l’incertezza giuridica legata alla mancanza di una definizione univoca di ‘plastica’.
Nel corso di audit svolti in tre Stati membri, tra cui l’Italia, i membri della Corte hanno rilevato l’insufficienza dei controlli sulle operazioni di riciclo e il “rischio molto elevato che i riciclatori non sottopongano a operazioni di trattamento i rifiuti di imballaggio di plastica ricevuti”, visto che in uno dei Paesi visitati “per la maggior parte della plastica inviata ai riciclatori, non vi era uno sbocco di mercato economicamente sostenibile“. Nel loro report gli auditor dell’Ue sollevano dubbi anche sui rifiuti esportati fuori dall’Unione, rispetto ai quali gli Stati membri “non sono attualmente in grado di verificare” se vengano riciclati “in condizioni ampiamente equivalenti ai requisiti previsti dalla normativa dell’Ue”.
“Chiediamo alla Commissione europea di risolvere immediatamente il problema e che gli insegnamenti tratti in questa occasione vengano sfruttati nell’elaborazione di potenziali future fonti di entrate dell’Ue”, ha detto Christoforou. La Commissione si è detta “pronta ad agire in merito alle raccomandazioni presentate nella relazione”, accogliendo l’invito a migliorare la comparabilità e affidabilità dei dati entro il 2026 e ad attenuare, entro il 2027, il rischio che i rifiuti avviati a riciclo non vengano effettivamente riciclati, chiarendo di stare già “adottando diverse misure per affrontarlo, in particolare tramite il nuovo regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio e il regolamento riveduto relativo alle spedizioni di rifiuti”.