Secondo ARERA solo il 4% delle acque reflue viene riutilizzato in industria o in agricoltura, ma Ref stima un potenziale di 5 miliardi di metri cubi capace di soddisfare il 45% del nostro fabbisogno irriguo. Servono investimenti soprattutto al Sud dove, dice Utilitalia, la frammentazione della governance ostacola lo sviluppo industriale del ciclo idrico
Ambiente, società, economia. Le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile hanno un minimo comune denominatore: dipendono tutte dall’acqua, dalla presenza o meno di un approvvigionamento idrico adeguato, di buona qualità e opportunamente distribuito a livello geografico. Oltre a essere indispensabile per la vita sulla Terra, insomma, l’acqua è la risorsa chiave di ogni strategia di crescita sostenibile. Eppure continuiamo a sprecarla come se fosse infinita. Anche quando tutto intorno a noi continua a ricordarci che infinita non è e che anzi diventerà sempre più rara, come sembrano ammonire le ultime, spettrali immagini del Po, prosciugato dopo 100 giorni senza pioggia. Con conseguenze potenzialmente devastanti per il settore agroindustriale. L’Italia, insieme all’intera area del Mediterraneo, è del resto tra i paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico sulla distribuzione delle precipitazioni e quindi sull’intero ciclo dell’acqua. Motivo in più per prelevarla con giudizio, usarla in modo efficiente e rimetterla in circolo dopo averla depurata. E invece, oltre a essere il Paese che consuma più acqua di tutti in Europa, oltre 236 litri per abitante nel 2020, siamo anche campioni di spreco e di cattiva depurazione.
Secondo l’ultimo Blue Book di Utilitalia, nei Comuni capoluogo di provincia e città metropolitana, dove risiedono 17,8 milioni di persone, pari a circa il 30% della popolazione italiana, le perdite totali si sono attestate nel 2020 al 36,2%, percentuale equivalente a 41 metri cubi al giorno per km di rete. Complessivamente, secondo Istat, a fronte dei 236 litri pro capite utilizzati dagli utenti finali, pari a 1,5 miliardi di metri cubi, i gestori hanno immesso nelle reti di distribuzione dei comuni capoluogo di provincia e città metropolitana 2,4 miliardi di metri cubi di acqua, pari a 370 litri per abitante al giorno. Ciò significa che quasi un miliardo di metri cubi è andato disperso. Le nostre reti, insomma, sono un colabrodo. E non va meglio nella fase a valle del ciclo, quella della depurazione, dove sono ben quattro le procedure europee d’infrazione aperte ai danni del nostro Paese, che coinvolgono complessivamente circa 939 agglomerati urbani. Eppure anche le acque reflue, se correttamente trattate, possono essere riutilizzate in agricoltura, ma non solo, riducendo i prelievi dalla falda o dai corpi idrici. In Italia non mancano le buone pratiche.
Complessivamente, secondo uno studio di Ref Ricerche, dal 2018 ogni anno vengono riutilizzati circa 200 milioni di metri cubi di acqua depurata. Soprattutto in Lombardia ed Emilia-Romagna, dove alla destinazione agricola si associa anche quella industriale. È il caso di AIMAG, società di gestione del depuratore di Carpi, che dopo averle trattate restituisce le acque di scarto delle tintorie alle manifatture del distretto tessile per nuovi utilizzi. O del gruppo CAP, che utilizza le acque depurate dall’impianto di Assago per alimentare le moto spazzatrici che provvedono al lavaggio delle strade. Ma casi di riutilizzo non mancano in Puglia, Sicilia o Sardegna. Secondo l’autorità di regolazione ARERA, tuttavia, a fronte un potenziale già destinabile al riutilizzo del 20%, al momento solo il 4% delle acque reflue depurate viene effettivamente valorizzato. Secondo Ref, per il solo uso agricolo nei pressi degli impianti di depurazione potrebbero essere riutilizzati ogni anno poco meno di 5 miliardi di metri cubi di acqua depurata, coprendo circa il 45% della domanda irrigua nel nostro Paese.
L’imperativo è adeguare gli impianti, che soprattutto al Sud restano vetusti e incapaci di allineare l’offerta di acqua depurata agli standard di qualità fissati dalle norme europee, a partire dal nuovo regolamento sul riutilizzo in agricoltura, che entrerà pienamente in vigore dal giugno 2023. Gli investimenti, però, avanzano a rilento. Secondo il Blue Book, si passa dai 61,5 euro per abitante delle gestioni del Centro ai 56 euro per abitante del Nord Ovest, mentre per il Sud si registra un valore di appena 26 euro per abitante. Numeri che riflettono la frammentazione della governance, che soprattutto al Mezzogiorno resta lontana dal modello industriale. Anzi, spiega Utilitalia, delle 1560 gestioni in economia (ovvero contesti in cui almeno uno tra i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione è controllato direttamente dai Comuni) il 77% si trova proprio nel meridione. Serve accelerare, e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che apposta al capitolo depurazione 600 milioni di euro, può essere l’occasione giusta. Secondo quanto comunicato dall’ufficio del Commissario unico per la depurazione Maurizio Giugni, sarebbero 56 gli interventi prioritari ai quali destinare i fondi del PNRR, di cui 46 in Sicilia, sette in Calabria e tre in Campania, con l’obiettivo, tra gli altri, di “ragionare diversamente su pratiche come il riutilizzo dei fanghi e il riuso irriguo dei reflui trattati“.