L’Istituto per la sicurezza nucleare torna a lanciare l’allarme sulle conseguenze dei ritardi nella realizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. La necessità di adeguare i depositi temporanei e di realizzarne di nuovi “fa lievitare i costi a carico della collettività”. Che potrebbero raggiungere i 10 miliardi di euro
Un parallelepipedo di 70 metri per 18 e un’altezza di 13 metri, che una volta completato potrà ospitare in sicurezza circa 1800 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività. Nella ex centrale nucleare del Garigliano, in provincia di Caserta, sono partiti da poche settimane i lavori che entro il 2026 porteranno all’attivazione del nuovo deposito temporaneo per i residui radioattivi delle operazioni di smantellamento, in aggiunta a quelli già esistenti che al dicembre del 2022 ospitavano circa 2mila 500 metri cubi di scorie. È solo l’ultima iniziativa in ordine di tempo attivata da Sogin per accogliere provvisoriamente i rifiuti generati dal decommissioning delle ex installazioni nucleari italiane e consentire così la prosecuzione dei lavori. Al Garigliano, ad esempio, l’attivazione del nuovo deposito sarà indispensabile per portare avanti il complesso piano di dismissione del reattore, la prima operazione di questo tipo avviata in Italia e di fatto una delle più delicate e strategiche nell’ambito del piano nazionale di decommissioning. Un processo che secondo Sogin oggi viaggia intorno al 44% e che nelle centrali di Trino, Garigliano, Caorso e Latina tra il 2037 e il 2042 dovrebbe raggiungere il ‘green field’, vale a dire lo smantellamento di tutte le strutture e l’allontanamento dei rifiuti radioattivi stoccati. Prima però occorrerà realizzare e avviare il deposito nazionale che dovrà accoglierli, la cui data di entrata in esercizio, al momento, nessuno può indicare con certezza.
Mentre il governo guarda già al nucleare del futuro, che stando al PNIEC appena inviato in Ue entro il 2050 potrebbe garantire l’11% del fabbisogno elettrico nazionale, la partita per chiudere i conti con il nucleare del passato resta infatti ancora in una fase interlocutoria. La proposta di CNAI, Carta nazionale delle aree idonee a ospitare il deposito nazionale, ha individuato 51 siti ma da novembre del 2022 il dossier fa la spola tra Ministero dell’Ambiente, Sogin e l’ISIN, l’Ispettorato per la sicurezza nucleare, che a ottobre del 2023 ha inviato il suo parere definitivo sulla seconda revisione. Da allora tutto tace, eccezion fatta per il tentativo parlamentare di aprire il processo all’autocandidatura di aree non incluse nel censimento, con l’approvazione di un disegno di legge che, tuttavia, dopo un iniziale passo in avanti del sindaco di Trino, non ha dato i risultati sperati dal governo.
Si torna alla procedura ordinaria, quindi. La prossima mossa spetta al MASE, cui toccherà aprire la procedura di VAS sulla versione definitiva della CNAI, che però è già stata bocciata da tutti i territori censiti. Uno stallo che allunga i tempi della dismissione nucleare e che “finisce per far lievitare gli investimenti (a carico della collettività) necessari per adeguare le strutture provvisorie di deposito e per la realizzazione dei nuovi depositi temporanei”, ricorda ISIN nella sua ultima relazione annuale al Parlamento. Del resto, se nel piano vita intera di Sogin del 2008 il raggiungimento del ‘brown field’ (ovvero strutture smantellate ma rifiuti ancora depositati in situ) era stato fissato al 2019 per un costo complessivo di 4,47 miliardi di euro, nell’ultima versione del piano, quella del 2020, il termine è stato spostato al 2036 per un costo di 7,89 miliardi. Che sommati agli 1,5 miliardi che occorreranno per la realizzazione del deposito nazionale e dell’annesso parco tecnologico potrebbero portare il costo totale verso i 10 miliardi di euro.
Ogni anno in più di lavoro, insomma, si traduce in decine di milioni di costi ulteriori, determinati anche dalle esigenze di gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi generati. Il 2023 non ha fatto eccezione. Come fa ormai da diversi anni, anche lo scorso anno l’Ispettorato ha “registrato le medesime criticità degli anni precedenti” sul fronte della gestione dei rifiuti radioattivi derivanti dal decommissioning, legate soprattutto alla “insufficiente disponibilità di capacità di deposito temporaneo in sito”, visto che il deposito nazionale che dovrebbe accoglierli tutti ancora non c’è e che la sua assenza vincola la prosecuzione delle attività di smantellamento “a un continuo adeguamento non solo tecnico ma anche di aumento della capacità della disponibilità di adeguati spazi”. Perché se è vero “che sono stati realizzati nuovi depositi temporanei secondo i più avanzati requisiti di sicurezza” (come il nuovo deposito temporaneo alla centrale del Garigliano), “in molti casi – ricorda ISIN – i rifiuti radioattivi continuano ad essere collocati provvisoriamente in strutture datate”.
Il caso più controverso resta quello delle circa 13 tonnellate di combustibile nucleare irraggiato stoccate nel deposito Avogadro di Saluggia, in provincia di Vercelli, “in strutture ormai vetuste” sottolinea ISIN e “in attesa del trasferimento per il riprocessamento presso l’impianto di La Hague, che è rimasto bloccato anche nel 2023 perché l’Italia non ha potuto fornire alla Francia le garanzie richieste sui tempi di realizzazione del deposito nazionale”. Un nodo che l’amministratore delegato di Sogin Gian Luca Artizzu, in una risposta alla testata Wired, ha comunicato di aver posto al centro delle riattivate interlocuzioni con la francese Orano per giungere in tempi rapidi a una nuova programmazione delle attività. Interlocuzioni che dovranno contemplare non solo la ripresa dei trasferimenti di combustibile, ma anche il previsto rientro dall’estero dei residui del riprocessamento delle quantità già inviate. Stando agli accordi siglati con la Francia e con l’Inghilterra, che negli anni passati hanno ricevuto circa 1900 tonnellate di combustibile delle ex centrali italiane per recuperarne le parti ancora utilizzabili, entro il 2025 dovremmo infatti riprenderci i circa 100 metri cubi di residui a media e alta attività generati dal trattamento “e l’inosservanza di questo termine rischia di comportare ulteriori e gravosi oneri a carico dello Stato Italiano”, chiarisce ISIN.
Nuovi costi, da aggiungere al conto già salato da pagare ogni anno per mantenere in sicurezza i rifiuti radioattivi stoccati sul territorio nazionale. Complessivamente, secondo ISIN, nel 2023 ammontavano a 35mila 447 metri cubi, generati dal decommissioning e dalle quotidiane attività di ricerca, dalla medicina nucleare e dall’industria. Andranno tutti trasferiti al deposito nazionale, ma prima ancora dovranno essere sottoposti a operazioni di condizionamento, ovvero inglobati in matrici solide, principalmente malte cementizie, “per renderli atti al trasporto e allo smaltimento definitivo in sicurezza”. A oggi, tuttavia, la percentuale sottoposta a trattamento “corrisponde in via approssimativa solo al 30%”, specifica ISIN, “e la quantità residua di rifiuti ancora da trattare rappresenta una criticità costantemente all’attenzione delle attività di controllo e vigilanza”. Ai rifiuti già stoccati sul territorio nazionale si aggiungeranno nel prossimo futuro i circa 48mila metri cubi generati dal prosieguo delle attività di decommissioning. Nell’attesa del trasferimento definitivo al deposito nazionale, che una volta in esercizio potrà ospitare 78mila metri cubi di residui a bassa e molto bassa attività e, temporaneamente, 17mila scorie ad alta intensità, che a loro volta dovrebbero essere poi trasferite in un deposito geologico di profondità europeo. Chiudendo, si fa per dire, i conti con il nucleare del passato. Per quello del futuro domani si vedrà.