Investimenti per 11 miliardi in invasi, dissalazione, depurazione e riutilizzo delle acque reflue. Ma anche una riforma della governance che favorisca le gestioni industriali: così le imprese del ciclo idrico possono vincere la sfida dell’adattamento climatico in un’Italia sempre più calda e secca
Il settore idrico deve anticipare gli inevitabili effetti del cambiamento climatico e adattare strategie e infrastrutture alla sempre minore disponibilità di acqua. Anche spingendo il riutilizzo in agricoltura delle acque depurate, un bacino dal potenziale che oscilla tra i 4 e i 6 miliardi di metri cubi. Ovvero tra un terzo e la metà circa del fabbisogno irriguo nazionale. Un fronte sul quale, nel prossimo futuro, risulterà determinante l’impegno delle utility dell’idrico, già pronte a mettere in campo investimenti per 11 miliardi di euro, come emerge da uno studio realizzato da fondazione Utilitatis in collaborazione con Protezione Civile ed Enea. “Le imprese che operano nel servizio idrico – spiega la direttrice di Fondazione Utilitatis, Francesca Mazzarella – sono chiamate ad adottare un nuovo approccio alla pianificazione industriale e alla gestione di reti e impianti, vista anche la riduzione della quantità di risorsa idrica rinnovabile che potrebbe manifestarsi in futuro”.
Il cambiamento climatico, spiega lo studio, sta incidendo in maniera profonda sulla disponibilità delle risorse idriche nel nostro paese. Negli ultimi 70 anni in Italia sono aumentate in maniera statisticamente significativa le zone colpite da siccità estrema, e il trend è culminato con la terribile emergenza dell’estate 2022, quando ben 9 regioni hanno dichiarato lo stato di emergenza richiedendo lo stanziamento di 56 milioni di euro per finanziare interventi urgenti, necessari a mettere in sicurezza cittadini e imprese. Scenari che, secondo le proiezioni, nel prossimo futuro potrebbero aggravarsi sia in termini di variazione in intensità e distribuzione delle precipitazioni che di aumento di frequenza degli eventi siccitosi. “Gli effetti dei cambiamenti climatici sul ciclo dell’acqua – evidenzia Mazzarella – possono avere un impatto critico su infrastrutture, agricoltura, biodiversità e dunque sulla società civile. Il rapporto – dice – sottolinea l’importanza di una pianificazione strategica per uscire dalla logica dell’emergenza che rischia di farci trovare impreparati alla sfida climatica che ci attende”.
Stando al dossier, in cima alla lista delle priorità resta l’aumento della capacità d’invaso, da realizzare in primo luogo recuperando il gap tra il volume potenzialmente invasabile nelle 532 grandi strutture attualmente censite, autorizzate per circa 11,8 miliardi di metri cubi ma dalle quali si potrebbero recuperare ulteriori 1,9 miliardi portando il totale a 13,7. Da integrare con nuovi invasi e serbatoi, anche in interconnessione. Condizione, quest’ultima, imprescindibile anche per differenziare l’approvvigionamento e rendere disponibili le risorse a livello sovra regionale. Secondo il dossier, serve sfruttare meglio anche le potenzialità della dissalazione, soprattutto in contesti come le isole minori o le zone minacciate dalla risalita del cuneo salino, allineando le performance dell’Italia (0,1% dell’approvvigionamento coperto d adisslazione) a quelle degli altri paesi mediterranei come Grecia (3%) e Spagna (7%).
Altro fronte d’intervento quello della depurazione, dove i 3mila 678 impianti attivi potrebbero garantire fino a 5,8 miliardi di metri cubi di acqua riutilizzabile in agricoltura, o 4,2 miliardi contando solo gli impianti più avanzati. Pari, rispettivamente, a quasi la metà e un terzo del fabbisogno irriguo nazionale. Una sfida che passa soprattutto per il recupero del gap che separa il Nord dal Sud, dove gli investimenti si fermano a 18 euro l’anno per abitante contro la media nazionale di 24 euro e dove, non a caso, si concentra il 72% dei 939 agglomerati urbani coinvolti dalle quattro procedure europee d’infrazione: Complessivamente, le aziende italiane del settore idrico sono pronte a mettere in campo investimenti per circa 11 miliardi di euro nei prossimi 3 anni: 7,8 saranno destinati ad interventi per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento idrico delle aree urbane ed una maggiore resilienza delle infrastrutture, e 3,1 miliardi per contrastare il fenomeno delle dispersioni idriche.
Per sbloccare appieno il potenziale di investimento e innovazione del settore, però, serve un’azione decisa sul fronte della governance, tuttora caratterizzata da una estrema frammentazione. Troppe le gestioni in economia, dice il mondo delle utility, lontane dall’assetto industriale necessario a fronteggiare al meglio le sfide dell’adattamento climatico. “Per questo – spiega il presidente di Utilitalia Filippo Brandolini -la federazione si è fatta promotrice di una proposta di riforma del settore in quattro punti, espressione degli stessi gestori che intendono elevare il livello degli investimenti e la qualità dei servizi offerti ai cittadini”. Secondo la federazione delle utility serve trasferire immediatamente alle regioni le chiavi del ciclo laddove persistano gestioni in economia, introdurre verifiche periodiche per responsabilizzare i gestori, incentivare – anche economicamente – i gestori e allargare il perimetro delle attività (quindi quello della tariffa) anche alle infrastrutture per il riuso, alla gestione delle acque meteoriche, al recupero energetico dai fanghi da depurazione e agli invasi. “Le nuove sfide poste dal cambiamento climatico, insieme alle norme europee che stabiliranno standard ambientali sempre più stringenti – osserva Brandolini – impongono al comparto un cambio di passo: attraverso le nostre proposte di riforma siamo convinti di poter raggiungere l’obiettivo 100, arrivando a un centinaio di gestori industriali di media/grande dimensione e a un livello di investimenti di 100 euro l’anno per abitante, rispetto ai 56 euro attuali”.