Circular Economy, target ambiziosi: ma come li calcoleremo?

di Giuseppe De Stefano 27/01/2017

Non più raccolta differenziata, ma avvio a riciclo. Dopo un decennio e passa ad inseguire le statistiche dei materiali con cui andiamo a riempire – più o meno correttamente – bidoni e bidoncini colorati nelle nostre strade (e successivamente direttamente nelle nostre case), negli ultimi anni si è alquanto ampiamente diffusa la consapevolezza di quanto quei numeri fossero troppo facili da gonfiare e che con la sostenibilità ambientale ed economica della gestione dei rifiuti avevano poco a che vedere, se non per il ruolo propedeutico e culturale che la separazione a monte dei rifiuti urbani può avere.

Dove questa consapevolezza tardava non tanto ad arrivare quanto a diventare effettiva ed efficace era, paradossalmente, proprio a Bruxelles: la direttiva quadro che disciplina la gestione dei rifiuti (la 98 del 2008) si limitava a prescrivere la raccolta differenziata per i materiali “fondamentali” (plastica, metalli, carta e vetro che in Italia sono limitati agli imballaggi tramite il sistema Conai), ma soprattutto – nel fissare i vari target comunitari – calcolava le quantità tenendo come “punto di misurazione” il peso dei rifiuti all’ingresso dell’impianto di selezione/trattamento. Per essere più precisi, ai Paesi Membri veniva lasciata ampia discrezione sui metodi di calcolo tra ben quattro diverse opzioni: una scelta comprensibile a fronte di una tanto disomogenea ed articolata realtà sia sul fronte delle politiche di gestione che su quello dell’avanzamento dell’industria del riciclo dei materiali. Ma senza una tensione all’omologazione i dati raccolti su base continentale si rivelano incomparabili tra loro e quindi inefficaci al momento di restituire un dato complessivo affidabile tanto per i policy makers quanto per i mercati.

Quando il discorso sull’Economia Circolare ha preso corpo presso l’Europarlamento (già all’epoca della prima proposta di direttiva firmata dall’ex Presidente Barroso nel 2014), anche il concetto di “avvio a riciclo” in sostituzione a quello di “raccolta differenziata” si è sempre più fatto strada alimentando il dibattito tra gli stakeholders su scala nazionale e continentale. Dibattito che si è alimentato fino all’epilogo (temporaneo) di martedì scorso, quando la Commissione ha votato degli emendamenti chiave alla proposta di direttiva presentata (questa volta) dall’Esecutivo Juncker a dicembre 2015. Fissati al 60% entro il 2025 ed al 70% entro il 2030 gli obiettivi di riciclo dei rifiuti urbani (nella proposta della Commissione il target era 65% al 2030) mentre per gli imballaggi si fissano obiettivi al 70% entro il 2025 ed all’80% entro il 2030 (la Commissione proponeva invece 65% al 2025 e 75% al 2030). Ma cosa significa?

La questione può sembrare sottile, giuridica. Dopo uno sguardo attento si rivela, però, sostanziale. Già nella proposta di direttiva originale si ponevano delle regole uniformi di calcolo per misurare gli effettivi tassi di riciclo. La condizione posta era che quelle percentuali di rifiuti riciclati rispondessero a “the weight of the input waste entering the final recycling process, e cioè “al peso in ingresso del processo di riciclo finale”. Rispetto alla stragrande maggioranza dei metodi precedenti questa dicitura pur spostando in maniera chiara la misurazione a dopo le operazioni di selezione, manteneva dei profili di facile fraintendimento. Per questo tra gli emendamenti proposti (e votati martedì in Commissione) c’era una più precisa definizione di questo cruciale final recycling process”.

Definizione che rispetto alla precedente versione (in cui si faceva riferimento a selezione meccanica ed alla necessità di passare attraverso un trattamento che potevano creare ambiguità per alcuni casi specifici di materiali che si possono avvalere di selezione manuale, ad esempio) dovrebbe permettere di fissare un punto di misurazione facilmente individuabile per qualsiasi filiera di materiali: “final recycling process” means the recycling process which begins when no further sorting operation is needed and waste materials are effectively reprocessed into products, materials or substances. In altre parole bisogna pesare e misurare i materiali all’ingresso di questo trattamento finale a valle del quale i materiali sono effettivamente trasformati in prodotti, materie prime seconde o sostanze, ma comunque non sono già più rifiuto senza bisogno di ulteriori passaggi industriali o manifatturieri.

 

 

Le conseguenze di queste precisazioni sono tutt’altro che banali e potrebbero cambiare radicalmente la geografia e l’approccio alle politiche ambientali nel Vecchio Continente. A testimoniarlo sarebbe sufficiente il fioccare di “position paper”, studi, et similia prima e dopo il voto di martedì da parte delle più svariate sigle di associazioni e consorzi di portatori d’interesse su scala europea: tutti, o quasi, plaudono alla direzione data dagli emendamenti. Euric, confederazione delle industrie di riciclo, sottolinea come senza una definizione di “final recycling process” si potessero confondere le attività di riciclo “puro” con quelle di produzione di Materia Prima Seconda che in alcuni casi coinvolgono anche l’utilizzo di materia vergine. Sulla definizione del punto di misurazione i riciclatori sono stati soddisfatti e con loro la Fead, federazione delle imprese di gestione rifiuti e dei servizi di igiene urbana: entrambe le sigle, però, sostenevano come preferibile una definizione “caso per caso” che a seconda dei flussi di materiali tenesse come punto di misurazione non alternativo, ma aggiuntivo quello in uscita dagli impianti di selezione, così da prevenire questioni di comparabilità ed omogeneità dei dati tra i vari Paesi. Ciò che conta – e questo appare il dato più condiviso – è che questa scelta avvicina il più possibile l’approccio del legislatore europeo all’effettivo processo di riciclo. Un approccio che – come fa notare Eurometaux, associazione dei produttori e riciclatori di metalli non ferrosi – avrà tra i suoi effetti positivi la capacità di incentivare una migliore raccolta e selezione, e quindi la qualità dei materiali riciclati andrà a migliorare. Ma non finisce qui, perché allontanandosi dall’output della selezione e considerando solo i materiali che entrano nella fase industriale finale di riciclo, il dato terrà fuori anche l’export, e quindi la possibilità di annoverare nelle statistiche del riciclo quote di materiale processate al di fuori degli standard Ue.

Quest’ultimo aspetto non va a toccare soltanto il discorso ambientale, ma anche più da vicino quello politico-economico. Per restare entro il dettato comunitario, i Paesi membri dovranno spronare ed incentivare quanto mai concretamente l’industria del riciclo: nessuno potrà più permettersi di non avere sul proprio territorio la capacità di trattare anche un singolo materiale. In questo senso i target del pacchetto sono ambiziosi e “spronanti”, ma alla luce di una rapida riflessione potrebbero rivelarsi eccessivi e frustranti. Per fare soltanto un esempio “guardando in casa nostra”, basti pensare che in Italia nel 2015 stando all’ultimo rapporto di sostenibilità compilato dal Corepla con il vigente metodo di calcolo, riciclo e termovalorizzazione si dividono in proporzione quasi identica il totale delle quantità di imballaggi in plastica recuperati (su un recupero dell’84,4% dell’immesso a consumo il 43,7% viene avviato a recupero energetico ed il 40,7% risulta riciclato) per capire che sottraendo anche il dato delle esportazioni (che è un dato variabile, ma dallo stesso rapporto di sostenibilità si legge che Corepla annovera nel suo sistema fuori dall’Italia ben 18 impianti in 7 Paesi Europei) raggiungere il 70% del riciclo di imballaggi al 2025 per la sola plastica significherebbe più che raddoppiare il dato attuale in meno di dieci anni con difficoltà superiori a quelle del sistema vigente. Poco meno di un’utopia, verrebbe da dire. E con tutti i suoi difetti l’Italia non è certo il paese messo peggio. Come si comporteranno i Paesi Membri più in ritardo?

Lanciare la sfida e fissare standard omogenei era probabilmente doveroso da parte delle istituzioni europee, ma forse l’ambizione dei decisori politici non ha fatto i dovuti conti con la realizzabilità.  Non a caso Business Europe, associazione che rappresenta le imprese di 34 Paesi Europei (il membro italiano è Confindustria), ha sottolineato che i target dovrebbero essere percorribili sul fronte economico, ambientale e sociale tenendo in giusto conto lo sviluppo tecnologico e, appunto, il metodo di calcolo. Metodo che, sempre per Business Europe, è giusto che risponda a regole armonizzate ed omogenee, ma solo dopo una sperimentazione ed un’analisi dei risultati di questo metodo sui singoli Paesi sarebbe stato saggio elaborare dei target realistici (la proposta delle imprese era di stabilirli entro il 2020).

 

 

Basti pensare che la German Association of waste management ha presentato una sorta di “studio di fattibilità” secondo il quale anche fissando il punto di misurazione in uscita dagli impianti di selezione (quindi tenendo maglie più larghe rispetto a quelle fissate con il voto di martedì) ad oggi il tasso di avvio a riciclo del Paese scenderebbe dal 65% ad una forbice compresa tra il 44 e il 48% (vedi foto sopra). In altre parole anche la Germania (non esattamente “l’ultima della classe”) faticherà non poco, e il rischio che quando toccherà recepirli, i target si presentino come pressoché irraggiungibili non aiuterà a diffondere una compliance che già fatica ad attecchire un po’ dappertutto nei confronti delle direttive comunitarie. Ancor di più in materia ambientale.

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